Al ministro Bussetti va riconosciuto un merito, quello di aver introdotto nell’amministrazione della scuola italiana il realismo. Anche le scelte fatte con la legge di bilancio obbediscono a criteri di concretezza, come quello di rivedere il monte ore dell’alternanza scuola-lavoro o di semplificare il reclutamento scolastico, rendendo più facile l’immissione dei giovani nei ruoli statali oppure ancora la sua attenzione all’innovazione tecnologica e la sua funzionalizzazione alla didattica. Quello del realismo è un merito che gli va riconosciuto, accanto a quello di non essersi lasciato andare a proclami di riforma generale, come hanno fatto i suoi predecessori, fallendo ogni volta e con conseguenze negative sulla scuola.



Questo modo di procedere va valutato positivamente perché ha come scopo non il ribaltare ciò che c’è, ma quello più realistico di rivederlo e di renderlo più efficace. E questo gli sta riuscendo, anche se con alcune cadute, come quella, rovinosa, degli esami di Stato, dove accanto a revisioni interessanti vi sono gravi errori come l’aver eliminato la tesina, che era stata l’innovazione più significativa di questi ultimi anni.



In questo approccio positivo non senza qualche contraddizione vi sono dei “però” che rappresentano dei nodi che prima o poi verranno al pettine. Tra questi nodi ve ne sono due che rischiano di diventare degli ingorghi che rallentano la pur realistica scuola di Bussetti.

Il primo è che non si vuole affrontare la questione autonomia-parità. Forse il ministro Bussetti lo farebbe, di fatto non lo fa e questo ha gravi conseguenze sul sistema scolastico che andrà sempre più in sofferenza. In primo luogo perché la scuola statale diventerà sempre più burocratica e statalistica, in secondo luogo perché l’ingiustizia che oggi subiscono le scuole paritarie diventerà ancor più pesante. E ora di realizzare una vera autonomia e parità, e questo per rendere la scuola più aderente alle esigenze di oggi, alle domande dei giovani. Questo governo non sembra intenzionato a dare vera autonomia né di fare passi verso la parità, il che renderà il realismo di Bussetti poco incisivo se non controproducente.



Il secondo nodo è quello della centralità educativa e quindi di una reale valorizzazione degli insegnanti. Non basta rivedere le modalità di immissione in ruolo, come non è sufficiente qualche promessa economica che sembra comunque senza prospettive, ci vuole di più, ci vuole maggior libertà per gli insegnanti e un sistema di valutazione dei docenti che sappia entrare nel merito dell’efficacia dei loro tentativi. C’è bisogno di affrontare al più presto la domanda di che cosa significhi oggi insegnare in una società liquida e lo si può fare solo con il contributo degli insegnanti. Sono gli insegnanti che possono identificare le modalità innovative richieste oggi dagli studenti, altrimenti la scuola continuerà ad essere la cinghia di trasmissione della cultura dominante. Per questo ci vuole un ministero che sappia riconoscere e valorizzare i tentativi di una didattica nuova, non più centrata sull’insegnamento-apprendimento ma capace di coinvolgere in un percorso di ricerca fatta di dialogo e costruzione. 

Il ministero deve dar voce a chi oggi sa insegnare a studenti che vivono dentro la crisi delle certezze. È quanto mai interessante affrontare con chi lo fa la struggente domanda educativa di oggi. Senza questo, il realismo di Bussetti è e rimarrà zoppo.