Nei giorni scorsi gli articoli di giornale o i programmi televisivi impegnati a scrivere consuntivi di quanto di importante è accaduto nel 2018 ed a fare previsioni su quello che potrà accadere nel 2019, si sono sprecati.
Per gli operatori del settore delle scuole paritarie questo non diventa un esercizio formale e dovuto, ma un’analisi necessaria, poiché da quanto accadrà nella “stanza dei bottoni” parlamentare e ministeriale nel prossimo anno dipende la sopravvivenza di numerose realtà che oggi operano con impegno, nelle difficoltà, per offrire un servizio di educazione e istruzione che, non dimentichiamoci, è considerato in ogni norma generale dello Stato un “servizio pubblico essenziale”. In tal senso cogliendo un passaggio dell’apprezzato Messaggio di fine anno che ci ha inviato il presidente della Repubblica Mattarella il 31 dicembre scorso relativo al volontariato ed al terzo settore rispetto al quale ha chiesto di evitare “tasse sulla bontà” per coloro che “sovente suppliscono a lacune o ritardi dello Stato negli interventi …”, mi sono chiesto se le scuole paritarie non siano nella stessa condizione visto che offrono, a completamento, servizi che lo Stato non offre (vedi scuola dell’infanzia che in certe Regioni coprono oltre il 50% del servizio) o offrono percorsi riconosciuti all’avanguardia e di qualità a favore di studenti e del loro futuro o aiutano spesso studenti che non hanno trovato risposta ai loro bisogni nelle Scuole di Stato.
Il problema, grave, sta nel fatto che sul raddoppio dell’Ires dal 12 al 24% (da alcuni definita “tassa odiosa”), vi è stata una levata di scudi generale tanto da costringere il Governo a una retromarcia che ha portato il presidente Conte a prendersi l’impegno per un immediato annullamento; mentre sulla condizione delle scuole paritarie permane, come si usa dire, un assordante silenzio.
Questo silenzio, sinceramente, non mi meraviglia, vista la posizione non favorevole alle scuole paritarie dichiarata in modo trasparente da parte degli esponenti del M5s: tutti hanno preferito il silenzio per mantenere l’esistente piuttosto che l’attacco o il confronto che avrebbe potuto portare a un peggioramento.
Ho fatto una riflessione frutto della mia estrazione culturale economica: l’andamento economico è normalmente ciclico e alterna periodi di recessione a periodi di crescita (già un padre dell’economia come Malthus a fine 1700 li studiava alternando periodi di ricchezza a periodi di povertà). Sappiamo che la ciclicità tra posizioni contrapposte è vissuta anche da altri contesti sociali, come la scuola, dove la contrapposizione è tra statalismo e autonomia. Va ricordato che dalla legge Casati del 1859 alla legge sull’autonomia scolastica 59/1997 voluta da Berlinguer abbiamo vissuto più di un secolo (ciclo molto lungo) in pieno statalismo, uno statalismo visto come soluzione positiva per ottenere una scolarizzazione di massa che garantisse l’istruzione a tutti i cittadini, ma che ha radicato la convinzione che la scuola debba essere un “monopolio dello Stato”. Dal 1997 al 2017 abbiamo vissuto un nuovo ciclo (molto breve) che ha cercato di agganciare la modernizzazione dei sistemi scolastici in tutto il mondo basata sulla autonomia delle istituzioni scolastiche quale modello che permetta non solo la libertà di istruzione, ma che garantisca lo sviluppo di modelli didattici capaci ottenere validi incrementi nei livelli di apprendimento. Dalla Corea alla Finlandia, dalla Russia alla Gran Bretagna all’Olanda, come hanno dimostrato fior di ricerche (un esempio è stata l’Associazione Treellle) ovunque si puntasse ad un miglioramento del sistema si è provveduto a rompere i vincoli statalisti e si è puntato sull’autonomia delle istituzioni scolastiche con sinergia pubblico privato, ottenendo notevoli risultati positivi. Ciclo troppo breve per invertire e sperimentare seriamente una rotta diversa ed ogni tentativo ha trovato forti ostacoli dovuti ad uno statalismo radicato.
Le prime decisioni di questo Governo sono un segnale preciso della linea politica: azzeramento di un timido avvio di autonomia abolendo l’assunzione diretta da parte dei dirigenti statali, previsto dalla legge 107/2015, e blocco della commissione varata per approfondire il costo standard.
Se il primo è un segnale chiaro, il secondo ritengo sia frutto di un’errata valutazione. Ho sempre sostenuto che la necessità di un’analisi scientifica dell’introduzione del metodo del costo standard nella scuola non è solo quella di aprire la strada alla parità e alla libera scelta educativa, come molti pensano (credo questa sia la motivazione del blocco dei lavori della commissione), ma fondamentalmente la necessità di avere parametri economici utili a rendere il sistema più efficiente e capace, quindi, di risparmi da poter reinvestire nel sistema stesso.
Il Governo sta prendendo decisioni favorevoli sulla richiesta di autonomia di ben nove Regioni. Sappiamo che tra le deleghe chieste vi è anche l’istruzione e, come ricordava Annamaria Poggi in un articolo su queste pagine, autonomia significa anche e soprattutto trasferimenti di risorse il cui calcolo non può basarsi sul criterio della spesa storica, ma sul costo standard. Da qui la necessità sostanziale di non abbandonare ma riprendere i lavori su questo tema, indispensabile se si ha l’obiettivo dell’efficienza, dell’economicità.
Quali previsioni o quali visioni? Ritengo che il futuro ci porti a dover accantonare nel breve il problema economico, e le scuole dovranno resistere operando con una gestione oculata. Se la legge di bilancio ha stanziato 4 miliardi in meno per il comparto scuola, un taglio giustificato da una previsione di calo demografico e dalla necessaria dimostrazione all’Unione Europea di impegno nel contenimento della spesa pubblica, non possiamo pensare possano aumentare i contributi alle scuole paritarie.
Credo si renda invece necessario e si possa aprire un tavolo di confronto, non ideologico, che affronti l’utilità per la scuola tutta di avviare una stagione normativa di sistema che punti a creare condizioni migliori di gestione nel suo complesso senza discriminazioni statale/paritario per trovare soluzioni alle criticità evidenti come ad esempio il reclutamento, le abilitazioni, il sostegno al disagio, i livelli di apprendimento, la dispersione.
Se prevale il buon senso e ci si confronta sapendo di essere su posizioni di partenza diverse, ma non da nemici perché tutti si ha a cuore la scuola italiana, il vecchio adagio “Uniti si vince”, come ci ha ricordato il presidente della Repubblica, potrebbe valere ancora.