Enrico ha occhi chiari come il cielo di Lombardia quando vuole esserlo e un sorriso largo come il suo cuore grande. Ma scrive da fare schifo. Dopo un mese di scuola media la sua grafia assomiglia a un tracciato dell’Istituto di sismografia. E io faccio il professore di italiano, storia e geografia. Mica il sismologo. Dopo due mesi abbiamo la confidenza giusta: chi scrive piccolo ce l’ha piccolo, gli dico. Il cervello, naturalmente. E sono sicuro che il tuo invece è grande come il cuore. Ma non c’è niente da fare, non si convince. E io non leggo. E allora scrivi con il pc.



La mamma arriva e capisco perché Enrico ha un sorriso e un cuore grande. Va bene, mi dice. Forse è anche il caso che gli faccia fare qualche controllo, dice. Certo, anche se di solito quelle robe lì noi le facciamo in seconda elementare. Intanto Enrico diventa un mago del pc. E io lo sfrutto con tutti gli altri che già hanno tanto di prescrizione medica per il pc, il portatile compensativo, appunto.



Lui è una scheggia, Marco, che è alto e allampanato con occhiali spessi come vetri di bottiglia, invece è lento più di una lumaca. Sua mamma è preoccupata: alle elementari è stato un massacro, stava sui libri otto ore al giorno. Come farà, qui? Certo non starà otto ore sui libri, dico io. In prima media è un delitto, anche per una scuola come la nostra che passa per un piccolo lager. Tu non devi vivere per la scuola, devi venire a scuola per vivere, dico a Marco che mi guarda dalla luna dove abita ogni tanto. E dietro ad Enrico, che ormai è un maestro in mappe, schemi, ricchi premi e cotillon, caccio fuori insieme a Marco anche Kevin, uno che quando parla tira giù le parole dalla stessa luna dove abita Enrico, ma poi si dimentica la corda e le lascia lì appese senza sapere costruire una frase compiuta nemmeno se lo pago; e anche Giorgio, uno che la sua scheda lo descrive come un serial killer: presenta difficoltà neuropsicologiche e logopediche, mostrando impulsività e difficoltà relazionale. Quello che si vede e si sente è un bambino più grande degli altri, con manone da uomo, con la erre moscia e un eloquio fluente. Mah. Comunque ogni tanto, durante le lezioni di storia, se ne vanno fuori con l’altro, con Stefano che ha la sua insegnante di sostegno e che anche lei impara da Enrico. Politicamente poco corretto, forse.

La mamma di Enrico è tornata dopo alcuni mesi con la diagnosi che, come volevasi dimostrare, segnala disgrafia e dislessia. Bene, le dico. Non cambia niente. Cioè, se lei è d’accordo, io non chiedo niente di diverso, né niente di meno rispetto a quello che facciamo. La mamma ha un sorriso largo come quello di Enrico, come il suo desiderio che lui continui a essere responsabile e protagonista a scuola e nella vita.

Così anche per gli altri. Che leggono a voce alta, che studiano l’Iliade e l’Odissea, Dante Alighieri in seconda. E poi in terza Leopardi, Ungaretti e Montale. E un libro letto ogni mese. Di cui non devono dire protagonista, antagonista e tutte quelle minchiate che piacciono tanto alle antologie di italiano, ma di cui devono dire il valore, se gli ha cambiato la vita oppure no. E insegnano agli altri, a quelli che si credono bravi, come si fa a sintetizzare, a schematizzare. Non lo faccio io per loro. Hanno imparato a farlo.

Dopo l’esame di terza media, Enrico mi ha portato un pacchetto infiocchettato. C’era dentro un biglietto che diceva più o meno così: grazie per avermi insegnato la rotta, ora andrò nel mare più sicuro. E adesso le mie chiavi stanno dentro un portachiavi a forma di bussola che accompagnava il biglietto.

Dopo l’esame di terza media, Giorgio ha messo lì la sua manona appiccicata alla mia: era più grande la sua. Lui, intanto, con la sua solita erre moscia e la sua parola ricercata è diventato il più serio, il più responsabile e gentile gigante della scuola, con un otto all’esame finale. Altro che serial killer.

Marco, dal fondo di bottiglia dei suoi occhiali, ha lasciato partire due lacrime. Anche lui è più grande di me e ha imparato a scrivere poesie, me ne ha lasciata una di nascosto nel cassetto. E le lacrime adesso vengono a me. Kevin va via insieme a loro, con le sue parole appese al cielo e un sette nel giudizio finale dell’esame che neanche ci crede. Erano quattro sconosciuti. Erano quattro Bes. Sono diventati quattro amici per la pelle e la vera spina dorsale di una delle mie classi.

Così qualche tempo fa, quando nell’aula dove si svolgono i colloqui con i genitori è entrata una mamma brandendo delle scartoffie e urlando alla mia più giovane collega che adesso finalmente suo figlio non avrebbe più scritto, non avrebbe più letto, non avrebbe più studiato come lei lo costringeva a fare, mi è venuta proprio una tristezza infinita. Ho pensato alle parole del prof. Ceriani nell’intervista rilasciata alla prof. Paggi per il nostro giornale, parole che andrebbero riportate in ogni piano dell’offerta formativa e che i giovani colleghi dovrebbero impararsi a memoria. Perché sei felice? avrei voluto chiedere alla mamma trionfante. Perché tu non sei più responsabile, perché non lo è più tuo figlio e nemmeno l’insegnante? L’avrei anche chiesto all’altra mamma che qualche giorno prima aveva minacciato un’altra giovane collega perché si era permessa di passare tra i banchi, tirare la coda della figlia, come a suonare una campanella e simpaticamente richiamarla a svegliarsi. Come, dopo che lei tanto aveva fatto per mettere sua figlia sotto una campana di vetro a proteggerla dalle brutture del mondo? Che affronto. Roba da avvocati, diceva la mamma.

Che tristezza, ho di nuovo pensato. Mai sentito dire che si impara per affezione? Che è solo dentro una relazione vera che si può apprendere? Che insegnare è un affare di fiducia e responsabilità reciproca e che ci sta di mezzo anche il corpo, la passione? Dovrebbero sentire cosa dicono Enrico, Marco, Kevin, Giorgio e le loro mamme. Dovrebbero chiedere a loro se sono felici.

Ecco, in questa epoca di cambiamenti politici in cui il governo cancella a colpi di decreti una scuola che non è mai stata buona; in cui butta via i vari Tfa (terribile farsa astratta?) e Fit (tremenda invenzione fantozziana?) che tanto rimbambivano gli animi dei miei giovani colleghi, non faccia soltanto tabula rasa. Almeno cerchi di far leggere qualche volta ai professori le parole di Ceriani, qualche pagina di filosofi, qualche brandello di testo di Massimo Recalcati e, più di ogni altra cosa, qualche poeta.

E anche ai genitori converrebbe rileggerselo subito il politicamente scorretto Pasolini che nelle Lettere luterane dava voce agli studenti così: Siamo stanchi di diventare giovani seri,/ o contenti per forza, o criminali o nevrotici; / vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare/ qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare. // Non vogliamo essere subito già così sicuri./ Non vogliamo essere subito già così senza sogni./ Sciopero, sciopero, compagni! Per i nostri doveri.// Signor Maestro, la smetta di trattarci come scemi/ che bisogna sempre non offendere, non ferire, non toccare./ Non ci aduli, siamo uomini, Signor Maestro! 

Lo ripeto per l’ennesima volta: bisogna tornare a imparare dai poeti. Smettiamola di trattare i figli (e gli alunni) come se fossero scemi, nevrotici o criminali. Dovremmo ascoltare la loro voce, essere padri, come dice Massimo Recalcati in Il segreto del figlio, avendo “fede nel segreto incomprensibile del figlio e nel suo splendore. Lasciare che il figlio nel suo viaggio possa perdersi o smarrirsi, che possa conoscere la sconfitta e la ferita per trovare il proprio passo. 

Io penso ancora che gli insegnanti siano qui perché ciascuno di questi figli possa trovare la propria strada. E noi come loro, perché anche noi siamo ancora, sempre in viaggio. Me lo dico ogni volta che accendo la macchina e giro la chiave con appesa la bussola di Enrico.