Le recenti dichiarazioni del ministro Bussetti sulle scuole meridionali che non hanno bisogno di ulteriori risorse finanziarie, ma di più impegno e lavoro, porta con sé alcune verità e alcuni errori. Innanzitutto possiamo affermare che anche nel settore della scuola si evince la presenza di due Italie, secondo la fortunata definizione dello storico inglese David Abulafia (Le due Italie, Feltrinelli 1991) e Giuseppe Galasso, ripresa in sintesi in un breve, ma efficace saggio (Due Italie nel medioevo? In Mediterranea, Ricerche storiche VIII 2011 pp. 217-36), che riprende un poderoso studio a più voci (Alle origini del dualismo italiano, Rubbettino 2014). 



Il rapporto Invalsi 2018 ha messo in evidenza come la preparazione degli studenti meridionali sia meno consistente di quelli del Centro-Nord e in particolare che “gli studenti del Nord-Ovest e del Nord-Est fanno registrare risultati migliori in matematica, italiano e inglese. Resta nettamente indietro il Sud, con risultati peggiori e un sistema definito meno equo”.

Il ministro, già lo scorso anno, aveva fatto notare che si rende necessario “un piano di interventi mirati” per porre rimedio alle divergenze tra le varie aree del paese messe in mostra dal rapporto Invalsi.

Un altro aspetto che mette in evidenza il dualismo “scolastico” riguarda la grande differenza delle valutazioni dell’esame di Stato, con voti in percentuale più alti e il conferimento di numerosissimi 100 e 100 e lode rispetto alle Regioni settentrionali. Secondo i dati del Miur nel 2018 le Regioni con il più alto numero di lodi sono Puglia (1.066), Campania (860) e Sicilia (560). In percentuale sempre la Puglia è la più prodiga, con il 3%, seguita nel meridione dalla Calabria con il 2%, mentre la Lombardia finisce in fondo alla classifica con lo 0,6% e poi sugli stessi valori si trovano Piemonte, Trentino, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, con lo 0,9%. Dunque in Italia meridionale c’è una scuola più disagiata, ma che ha valutazioni d’eccellenza; incongruenze poco comprensibili, che fanno pensare come il problema risieda più nelle risorse umane e nell’organizzazione e formazione del personale docente piuttosto che nei finanziamenti ministeriali.

Un altro dato di minor valore, ma comunque significativo, riguarda poi l’esito di un bando a favore della realizzazione di poli di biblioteche per il 2019, promosso dal Centro per il libro e la lettura del Ministero dei beni culturali che ha visto l’assegnazione di 25mila euro a 40 scuole italiane. Ebbene, nonostante il bando prevedesse 2 vincitori per Regione, nessuna scuola del Molise, Sardegna e Calabria e Valle d’Aosta ha presentato la propria candidatura. Romano Montroni, presidente del Cepell, ha dichiarato che spiace che “proprio le Regioni dove c’è più bisogno di biblioteche scolastiche siano quelle che disattendendo al bando hanno perso una importante occasione per dotare i loro territori di strutture che avrebbero potuto favorire la lettura tra i più giovani”. E anche nel settore della lettura alcune Regioni meridionali sono in prima fila. 

Se si chiede maggior impegno a studenti e docenti del meridione italiano, non ci si può stracciare le vesti, come hanno fatto ieri politici di tutte le razze e come ha scritto, con buoni argomenti, il dirigente scolastico Alfio Pennisi su queste pagine. E vero che ci sono ampie disparità socioeconomiche, ma è anche vero che la scuola ha smesso da tempo di essere uno strumento di ascensione sociale, in particolare al Sud. Questo fattore, tra l’altro, dipende ancora dalla qualità delle risorse umane più che da quelle economiche, nelle quali come è noto non ci sono differenze sostanziali tra varie aree del paese, visto che i docenti e il personale Ata sono pagati allo stesso modo e vengono assegnati alle scuole e trasferiti in base a criteri uniformi.

Se poi il deficit maggiore si riscontra sul piano della politica locale, sugli investimenti nel settore educativo degli enti territoriali, il punto dolente si ripropone: i territori devono trovare le risorse al proprio interno e non si può pensare che le soluzioni vengano sempre dall’esterno. Altrimenti prevarrà sempre il modello assistenzialistico, e il trionfo dei populismi (come sta accadendo in questi mesi), che rischia di paralizzare ogni iniziativa dei gruppi intermedi, avrà la meglio. 

Tuttavia il ministro Bussetti dovrebbe riflettere un po’ di più, prima di accendere le polemiche. Se esistono “Due Italie” (o anche più), è il modello centralista e statalista dell’istruzione italiana, nato nel XIX secolo, che va ripensato. Non si può pensare che l’istruzione sia uguale dappertutto, e che il modello ministeriale romano possa funzionare dovunque. In realtà “per colmare il gap” ci vuole maggiore autonomia delle istituzioni scolastiche, regole certe, ma minor utilizzo delle circolari e dei decreti ministeriali per governare il sistema.

E il gabinetto di Bussetti cos’ha inventato di recente per ridurre le differenze tra Nord e Sud nell’esame di Stato? Ha costruito un sistema rigido con prove sempre più standardizzate e griglie di valutazione dettate dal centro, con un’esigua autonomia delle commissioni d’esame. Non fidandosi della propria amante (la scuola italiana), il ministero di viale Trastevere nel riformare l’esame di Stato le ha messo una cintura di castità. In fondo è proprio in nome di questo statalismo centralista che non si può imputare a nessuno lo scarso impegno, perché oramai nella scuola italiana tutti si devono comportare allo stesso modo, tutti hanno le stesse risorse, tutti si devono adeguare agli standard imposti dal centro. Solo a chi ha margini di autonomia può essere richiesto un maggior impegno per migliorare la realtà in cui opera. E non viceversa.