Si assiste in questo periodo a continui attacchi contro la “regionalizzazione” della scuola. Ma cos’è la regionalizzazione della scuola? E quali conseguenze potrebbe comportare?

Per farsi un’idea, bisogna partire dal quadro generale. L’istruzione è una delle materie che le Regioni a statuto ordinario possono chiedere come “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, seguendo uno specifico procedimento, allo scopo di rendere il servizio più efficiente e corrispondente ai bisogni del territorio, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza (art.118). 



Questa norma è inserita nel Titolo V della Costituzione, come riformato nel 2001 e approvato con successivo referendum, che ha visto il 64% di favorevoli. Ma già l’articolo 5, scritto dai padri costituenti, indica l’autonomia locale e il decentramento amministrativo come principio fondamentale e costitutivo della Repubblica una e indivisibile. Va detto, inoltre, che l’unitarietà del sistema istruzione non è a rischio, perché è competenza esclusiva dello Stato dettare le “norme generali” nel rispetto dell’autonomia scolastica (Costituzione, art. 117).



Procedura disciplinata dalla Costituzione – L’iter di approvazione consiste in vari passaggi come previsto dal testo costituzionale: la richiesta della Regione, il negoziato col Governo, l’intesa, il disegno di legge che recepisce l’intesa, e infine l’approvazione della legge a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera. 

Le prime due Regioni che hanno intrapreso la strada dell’autonomia differenziata, prevista dall’articolo 116 della Costituzione, sono state Veneto e Lombardia, supportate da un referendum popolare che ha visto rispettivamente il 98% e il 95% a favore del sì. A queste due Regioni si è poi aggiunta l’Emilia-Romagna. Le trattative col governo, allora rappresentato da Gentiloni, erano arrivate a buon punto, tanto da sottoscrivere gli accordi preliminari.

Sono 15 le Regioni interessate all’autonomia differenziata – Successivamente, l’idea dell’autonomia differenziata ha cominciato ad interessare anche altre Regioni, seppure con intensità e modalità diverse. Come leggiamo nel dossier pubblicato dal Senato, 7 Regioni hanno già formalmente avviato la procedura per ottenere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, altre 3 Regioni hanno assunto le iniziative preliminari. Di fatto sono coinvolte 13 Regioni a statuto ordinario su 15.  

Il regionalismo differenziato oggi è considerato un’opportunità, soprattutto per le sue potenzialità in termini di efficienza nella fornitura di servizi e di volano allo sviluppo del territorio. D’altra parte, il centralismo statale non ha mai funzionato in tutto l’arco temporale della storia d’Italia. Pertanto è utile e legittimo cercare soluzioni che vadano nella direzione dell’efficienza e dello sviluppo, nelle forme e nei modi previsti dagli articoli 116 e 119 della Costituzione.

Il nodo delle risorse – Sta di fatto però che gli accordi preliminari sottoscritti con le Regioni Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, che prevedono comunque una “verifica” dopo 10 anni, si sono al momento arenati sul punto fondamentale del trasferimento delle risorse. Se una determinata funzione, prima esercitata dallo Stato, passa alla Regione, quei finanziamenti devono essere attribuiti alla Regione, senza che ci siano maggiori spese.

Ma le Regioni del Sud, già in difficoltà, temono di veder calare le risorse trasferite dallo Stato. A frenare, in questo momento, è soprattutto il Movimento 5 Stelle, che si trova diviso al proprio interno, perché da un lato ha il principale bacino di voti nelle Regioni del Sud, dall’altro ha cercato in tutti i modi di accreditarsi anche presso le categorie produttive del Nord.

Come procedere è una questione fondamentale per il governo. Non si può dire di no alle richieste di Regioni che esprimono le esigenze di milioni di cittadini, ma bisogna negoziare e trovare una soluzione, seguendo il dettato costituzionale. L’articolo 119, nella previsione che l’autonomia differenziata possa comportare degli squilibri tra le Regioni, stabilisce anche le misure da adottare per compensare e mitigare le diseguaglianze.

Come potrebbero stare i docenti con l’autonomia differenziata? – Lombardia e Veneto guardano esplicitamente alla vicina provincia autonoma di Trento. Ogni anno il Trentino eccelle nei test Invalsi in italiano, matematica e inglese al livello delle migliori esperienze europee. Da anni il Trentino è avviato verso il trilinguismo e ha costruito un canale forte e complementare nell’istruzione e formazione professionale. I risultati eccellenti sono frutto dell’attenzione nei confronti della scuola, gestita a livello regionale, i cui operatori sono gratificati nell’impegno richiesto per conseguire questi obiettivi e risultati. 

Facciamo un esempio: nel 2018 i docenti italiani si sono dovuti accontentare degli 85 euro di aumento di stipendio. Gli 8mila docenti trentini (assunti con concorso regionale) hanno ricevuto ovviamente lo stesso aumento derivato dal rinnovo del contratto nazionale. In più, il contratto regionale ha riconosciuto altri 4,8 milioni di euro come flessibilità (= 1.000 euro all’anno per ogni docente, compresi i supplenti annuali), e una cifra di 7,2 milioni di euro a titolo di “una tantum” per l’impegno in obiettivi particolari, quali il trilinguismo, l’alternanza scuola-lavoro, l’inclusione.

La via della negoziazione – È evidente, in conclusione, che sull’autonomia differenziata non si possono piazzare dei “no” pregiudiziali. Le richieste presentate delle Regioni sono infatti del tutto legittime, perché previste dalla Costituzione, e motivate dall’aspirazione a migliorare determinati servizi, guardando agli esempi già in essere che funzionano. 

L’unica strada percorribile è la negoziazione, che tenga conto delle legittime aspirazioni di maggiore autonomia da un lato, e delle esigenze di coesione e solidarietà sociale dall’altro.