Ha fatto discutere, in questi recenti giorni di scrutini, il caso della dirigente romana che, in prossimità della chiusura del primo quadrimestre, avrebbe emanato una circolare per ricordare ai docenti il criterio unanimemente condiviso di non assegnare, agli studenti delle classi prime della secondaria di primo grado, valutazioni pari o inferiori ai 4/10. La motivazione addotta sarebbe quella di non scoraggiare gli studenti, per prevenire quel fenomeno di demoralizzazione che porta spesso ad abbandoni o a cambi di istituto anche in corso d’anno, col rischio dell’interruzione del percorso scolastico.
La vicenda ha suscitato diverse prese di posizione, ognuna coi suoi argomenti pro o contro la decisione della preside.
A un anno dalla riforma degli strumenti di valutazione avviata dalla pubblicazione del dl 62/2017, terminati gli scrutini, consegnate le pagelle e iniziato ormai in tutte le scuole il secondo quadrimestre, il polverone mediatico suscitato dal “5 politico” (come è stato in alcuni casi definito dai media) costringe a guardare ancora una volta il processo imprescindibile alla crescita di qualunque soggetto che si chiama “valutazione”. Le Indicazioni nazionali ne parlano come di una “responsabilità”, e di responsabilità a tutti gli effetti si tratta, se si tiene conto che essa è chiamata ad accompagnare il percorso di ogni studente indicando una strada piuttosto che un’altra, mostrando nel proprio edificio i punti d’appoggio e quelli invece da rinforzare per costruire una casa stabile e sicura. Tanto più vale, questo, nel momento prezioso dello scrutinio, che a metà anno costringe docenti, studenti e famiglie a fermarsi e guardare.
Ponte tra passato e futuro, lo scrutinio è un momento di sintesi in cui emergono punti di lavoro per tutti, e in cui si svela la posizione che assumo come insegnante, cioè come uso e imposto le prove, le verifiche, come assegno i miei voti, con quali strumenti accompagno gli alunni al raggiungimento degli obiettivi e come li aiuto a capire i giudizi assegnati. È un atto di coraggio, quello del valutare: l’assunzione di un giudizio che guarda ciò che ha davanti e allo stesso tempo è capace di vedere lontano.
Pur senza entrarne nel merito (non credo infatti che i media ci abbiano dato tutti gli elementi per poterla comprendere), la vicenda della scuola di Roma porta alla luce i punti scoperti non tanto del sistema scolastico (né tanto meno della normativa vigente), ma quelli del rapporto che si instaura tra adulti e ragazzi attraverso la materia delle discipline. È “una lezione di ignoranza” (a detta sua) quella che diede Pennac nel discorso all’Università di Bologna nel marzo del 2013. Ma in quella lezione, che lo scrittore francese apre riconoscendo il debito che ha verso il sé stesso bambino, rinnegato ed escluso, fuori posto tra i banchi di scuola, sono offerti ai docenti due modelli distinti tra i quali decidere (anche quando, io dico, assegnano i voti): quello del pedagogo o del demagogo.
Se il primo è colui che nutre con un “sapere proteiforme”, se è colui che dischiude la curiosità, che risveglia la sete di sapere, che stimola lo spirito critico ed esercita “sulla nostra mente un’influenza dialogante”, il secondo è colui che, approfittando del sentimento di solitudine suscitato da fallimenti, carenze e frustrazioni, “sostituisce il dogma allo spirito critico, lo slogan al ragionamento, […] le credenze ai saperi, […] e soprattutto, soprattutto, addita il colpevole ponendosi come il vendicatore inviato dalla provvidenza”.
È in questa alternativa che a parer mio si innesta il valore e il senso di un voto, nella pagella come nelle prove scritte, orali, nei compiti e nelle verifiche del quadrimestre: se è indicazione o punizione, se apre un cammino o segna battute d’arresto, se tiene conto del percorso fatto o “fa parti uguali tra disuguali”, se scoraggia o rilancia, se attesta quello che c’è o segnala soltanto quello che manca.
È solo se guarda così, se scruta anche dentro di sé, che il docente riprende lo spazio che la fine del quadrimestre gli assegna, al di là degli adempimenti di rito e di ciò che va sul verbale: lo spazio tra il rischio dell’adulto che lo accompagna e la libertà dello studente che vi risponde. Quello spazio in cui si gioca la partita di ogni giorno di scuola.