Sta ancora tenendo banco la vicenda del maestro che, in una scuola primaria di Foligno, avrebbe rivolto espressioni irriguardose a un bambino di colore, nell’ambito di un “esperimento sociale” forse mal riuscito. Non entreremo nel merito della questione: l’esperienza di tanti anni nella scuola – da insegnante, da ispettore e da genitore – mi hanno insegnato che quanto succede dentro la classe può essere oggetto di fraintendimenti, può essere ingigantito o sottovalutato, può essere vissuto in maniera anche molto diversa a seconda del punto di vista, del grado di maturazione e della sensibilità dei bambini e degli adulti coinvolti. Prima di pronunciarsi con ragionevole certezza, occorre verificare con occhio competente e distaccato: un compito che tocca al dirigente scolastico e, se del caso, a ispettori e dirigenti dell’amministrazione.
L’oggetto di questa riflessione è un altro: cosa accade quando la scuola entra, spesso suo malgrado, nel circuito della comunicazione mainstream? La scuola è un fenomeno sociale complesso e carsico: un fiume sotterraneo che viene alla luce sporadicamente, ma scorre giorno dopo giorno sotto la superficie. Un fiume le cui acque sono oltre otto milioni e mezzo di bambini e ragazzi, affidati a più di 800mila insegnanti. Se aggiungiamo il personale Ata e quello del ministero nelle sue ramificazioni, arriviamo senza difficoltà a quota dieci milioni. In più ci sono i genitori, il cui coinvolgimento pratico ed emotivo nella vita scolastica dei figli è molto consistente, soprattutto nella scuola del primo ciclo.
Parliamo del più grande fenomeno sociale organizzato del nostro Paese: qualcosa di cui il discorso pubblico dovrebbe occuparsi di continuo e non nei soli casi in cui si manifesta una eccentricità (cioè un’eccezione, positiva o negativa, rispetto alla norma). Tanto più che le eccentricità vengono alla superficie in maniera sostanzialmente casuale: l’episodio di Foligno, ad esempio, avrebbe intercettato l’attenzione dei mezzi di informazione prima locali e poi nazionali a partire dal post su Facebook di un genitore, non si capisce neanche se direttamente coinvolto nei fatti.
Detto quindi che, parlando del maestro di Foligno non stiamo veramente parlando della scuola italiana, proviamo a fare un gioco. Diciamo, per ipotesi, che le cose siano andate davvero nel peggiore dei modi: un maestro razzista separa il bimbo di origine africana dai suoi compagni e lo dileggia perché è brutto proprio in quanto è nero.
Quando la vicenda diventa di dominio pubblico, si mette in moto un balletto dalla coreografia ripetitiva, sviluppato su due palcoscenici. Sul palco dei social network, la figura d’apertura è la reazione indignata. Seguono i primi distinguo, l’avanzare dubbi. Infine le generalizzazioni, normalmente di segno pessimistico. Sul palco delle istituzioni, le inevitabili prese di posizione della catena di comando ministeriale, con ogni livello che rilascia l’unica dichiarazione possibile in questi casi: “abbiamo disposto immediate verifiche: se confermati si tratta di fatti di enorme gravità e saranno presi provvedimenti”. A mescolare il tutto, in un polpettone dove la parola del ministro e quella di un genitore pescato a caso davanti alla scuola sono messi sullo stesso piano, i media rassegnati alla comunicazione fast-food: dal sapore risaputo e perciò rassicurante, veloce, inutile ma indolore.
Più che un discorso pubblico, in fondo, una serie di reazioni obbligate, sganciate dalla realtà dei fatti che ancora non si conoscono e forse non interessano. Reazioni che, proprio perché meccaniche, sono prive di valore: quale valore possono avere parole pronunciate perché devono essere pronunciate? Dove troviamo lo spazio per distinguere tra le parole del passante e quelle del ministro, la riflessione del pedagogista e la sparata dell’opinionista?
Proseguiamo il nostro gioco. È tutto vero: il maestro razzista, le frasi cattive. Siamo sicuri che l’indignazione, espressa dalla folla dei social come dagli anziani del Sinedrio, significhi proprio ciò che in apparenza vorrebbe comunicare?
Nell’Italia del 2019 ci sono espressioni e comportamenti ormai considerati socialmente accettabili da una parte consistente, forse maggioritaria, della popolazione. È considerato accettabile affermare che un bambino nato da genitori italiani abbia più diritto di stare in Italia di uno nato altrove e venuto a vivere con noi per bisogno o per libertà. È considerato accettabile discutere se sia o meno opportuno salvare migranti che rischiano di affogare nel mare Mediterraneo. È considerato accettabile parlare di cittadini d’etnia rom e sinti come di gente inadatta al vivere civile. Magari non si condividono, o non del tutto, queste posizioni: ma sono considerate accettabili, si ritiene che abbiano piena legittimità di proporsi e quindi anche di farsi pensiero maggioritario.
Diciamo allora che il maestro di Foligno ha realmente agito in maniera razzista nei confronti di un suo alunno. In fondo avrebbe solo fatto qualcosa che, a quanto pare, nel nostro Paese oggi si può fare: avrebbe distinto sulla base della pelle e della provenienza, trattando di conseguenza in maniera differente l’uno dagli altri. Perché allora tutto questo è oggetto di indignazione e condanna condivisa, quando si tratta in fondo dell’applicazione alla scuola di comportamenti altrimenti considerati accettabili?
Forse, se qualcosa possiamo trarre da questa storia che presto finirà nel dimenticatoio, è che il maestro di Foligno è il nostro ritratto di Dorian Gray e guardarlo da vicino, “con quella nota di crudeltà nelle labbra”, ci ha fatto per un attimo scoprire qualcosa di ciò che siamo diventati.