“La mano continuava a bussare, innervosita dal fatto che non rispondeva nessuno, voleva a tutti i costi entrare in casa. […] Sapevo che le probabilità di sfuggire alla cattura erano praticamente zero, ma anche che ero disposto a uccidere.
Con cosa?
Di nuovo la voce.
Poi la mano che bussava si è fermata. Forse voleva rinunciare e andarsene via? Mi avrebbe lasciato in pace? Sempre con la pancia incollata al pavimento, ho sollevato la testa e dal vetro ho guardato il cielo sgretolarsi nelle frange del pino. […]
Accidenti a quelle tavole che raschiavano sotto le ginocchia, ma, se avessi camminato, sarebbe stato peggio. Dovevo fare in fretta perché la mano aveva ripreso a bussare.
Tre colpi.
Poi altri tre.
Sono arrivato a sfiorare l’armadio, mi sono alzato al rallentatore, l’ho aperto, ho spostato pianissimo le matite e l’album, e mi ci sono infilato dentro. Ho richiuso le ante e ho visto la luce diventare una linea tra i vestiti.
Lì ero al sicuro, il poliziotto non mi avrebbe trovato. Non mi avrebbe preso mai.”



Non è un brano tratto da un thriller delle saghe nordiche che tanto vanno di moda. E’ invece la descrizione dell’ansia, dell’angoscia e della paura con cui, per anni, hanno vissuto molti bambini. E non in paesi lontani, ma nella vicinissima Svizzera.

Quei bambini costretti a nascondersi negli armadi e a temere ogni colpo alla porta erano i figli dei lavoratori italiani stagionali, i quali non potevano essere raggiunti in Svizzera dalle loro famiglie e dai figli. Solo le mogli erano ammesse, ma a condizione che disponessero a propria volta di un lavoro. I figli assolutamente no: erano “bambini proibiti”.



Il brano riportato è tratto dal romanzo di Nicoletta Bortolotti Chiamami sottovoce (Harper Collins 2018), che riprende, in forma romanzata, quanto alcuni anni prima aveva già documentato la psicologa Marina Frigerio nel libro Bambini proibiti.

“Chiamami sottovoce” è un’espressione estremamente efficace per sintetizzare le condizioni in cui quei bambini erano costretti a vivere e le regole che dovevano osservare: “Non devo far rumore … non devo piangere … non devo ridere forte … non devo fare chiasso quando gioco”. Quei bambini dovevano vivere per l’appunto “sottovoce”, chiudendosi nell’armadio se qualcuno bussava alla porta, separati dai genitori anche all’interno della loro casa.



Molto toccanti sono le pagine in cui si descrive il viaggio dall’Italia, inizialmente vissuto dal protagonista (il bambino Michele) come un viaggio di speranza, che avrebbe comportato il ricongiungimento con i genitori e condizioni di vita migliori. E che invece era stato un viaggio “senza panorami”, perché Michele doveva stare chiuso nel bagagliaio dell’auto. A lui era permesso di entrare in Svizzera solo come clandestino. Nessuno doveva sapere di lui.
Per questo Michele, come molti altri bambini italiani, venne relegato in soffitta, lontano dalla camera dei genitori, in modo da evitare problemi in caso di controlli da parte della Polizia cantonale. Senza poter frequentare una scuola e quindi senza contatti con i coetanei.

Se si leggono queste descrizioni con quanto la psicologia dello sviluppo ha evidenziato come bisogni evolutivi per una crescita fisicamente e psicologicamente sana ci si rende conto delle privazioni e delle sofferenze che i “bambini proibiti” dovettero subire. E si rimane ancora più colpiti dal fatto che tali situazioni hanno continuato a verificarsi per alcuni decenni, nonostante la “Dichiarazione dei diritti dei bambini” risalisse addirittura al 1923 e nonostante la Svizzera sia stata la patria di Jean Piaget e di molti pedagogisti che si sono occupati di infanzia.

Il romanzo offre due vie d’uscita: un’affittacamere che, pur attenta a non incorrere nelle leggi cantonali, permette a Michele di uscire nel giardino quando nessuno lo può vedere o sentire; ma soprattutto una bambina coetanea, Nicole, la quale comprende di che cosa quel bambino così solo ha bisogno e che ne condivide le regole, che pure non sono rivolte a lei: parlare sottovoce, non giocare in modo rumoroso, non urlare, soprattutto non parlare di quella situazione con nessuno, neppure con la propria madre.

I due bambini vivono “nel regno dell’irrealtà” fino a quando un altro adulto non li costringerà a tornare nel mondo quotidiano: un mondo dove un adulto denuncerà l’esistenza di Michele, costringendo così lui e la famiglia a tornare in Italia. E per quella bambina sarà molto doloroso scoprire, da adulta, chi era stato.

Il dolore di Michele è stato, però, più grande, tanto da fargli affermare che “solo l’infelicità può spingere qualcuno a progredire. Può stimolare l’ambizione a cui sacrificare tutto.” E continua: “Ecco perché oggi, quando vedo una persona di successo, mi chiedo: su quale infelicità lo ha costruito?”.

Quell’infelicità si rivelerà pienamente solo quando Nicole e Michele si reincontreranno da adulti e quando entrambi, separatamente, torneranno nel luogo in cui avevano vissuto in Svizzera, ricordando non i momenti di gioia che pure insieme, anche se brevemente, avevano vissuto, ma le sofferenze di cui erano stati vittime.

L’autrice rammenta alla fine come il personaggio di Michele non sia totalmente frutto di immaginazione, ma sia stato costruito sulle storie vere dei “bambini proibiti” raccontati da Marina Frigerio. Per questo al termine della lettura la commozione è ancora più intensa. Perché questo libro ci obbliga a renderci conto che le sofferenze dei bambini non sono solo dovute alla pedofilia, all’abuso, ai maltrattamenti, alle persecuzioni, alla violenza gratuita. Esiste anche una sofferenza, non meno intensa e ancor meno indagata, che si esprime nella quotidianità ed è dovuta a situazioni di isolamento, di esclusione, di impedimento che incidono sullo sviluppo psicologico e di cui i bambini stessi spesso si rendono conto pienamente solo quando, diventati adulti, si volgono a ripensare la loro infanzia.