La storia è in crisi. In Italia come nel mondo occidentale. E’ in crisi come lo sono, in tutto l’Occidente, le humanities, il sapere umanistico nel suo complesso. E non si tratta solo di insegnamento: anche al di fuori della scuola e dell’università l’interesse per la storia è in declino.
Altrove, non è così: in Cina, per esempio, la storia svolge un ruolo cruciale nella vita pubblica. Ma in Occidente si preferiscono le materie scientifiche, le conoscenze tecnologiche, le metodologie della comunicazione eccetera. Garantiscono carriere più sicure e permettono di guadagnare di più.
Ma c’è dell’altro. Quando latita il senso, prevale il fare. Fino a non molti anni fa, la storia proponeva nessi tra passato e presente, offriva prospettive per il futuro, suggeriva interpretazioni complessive. Insomma, trasmetteva senso ed esercitava, per questo, una potente forza attrattiva.
Era il senso di una storia nazionale, fondata su scelte dei padri che apparivano ancora valide, ma che richiedevano di essere ricomprese e rilanciate in modo nuovo. Era quello di una storia della lotta fra classi sociali, che denunciava le ingiustizie del passato e investiva il presente del compito di creare un mondo finalmente giusto. Era la storia di un progresso scientifico-tecnologico che ha affrancato l’umanità da tanti bisogni primari, ma chiedeva anche di non rallentare la lotta per migliorare la condizione umana. E così via. Le divergenze interpretative e persino gli scontri tra visioni storiche opposte non annullavano il senso della storia, anzi per certi versi lo facevano emergere con forza ancora maggiore.
Oggi, invece, la storia che si scrive e si insegna in Occidente non sembra offrire più senso alla società nel suo insieme e ai singoli individui. Nelle sue pur diversissime accezioni, il senso che offriva era legato a una storia eurocentrica o a una prospettiva occidentale. Sono impostazioni oggi improponibili.
Non c’è da rimpiangerle: erano legate a una logica egemonica, a un progetto di potenza, a una deformazione ideologica. Basta, dunque, allargare la visione storica da una prospettiva nazionale a una prospettiva mondiale e moltiplicare le cattedre di global history, come suggeriscono diversi interlocutori di Simonetta Fiori, che qualche giorno fa ha sollevato il problema su Repubblica?
No, non basta: questo allargamento è necessario ma, di per sé, non restituisce senso alla storia. Bisogna porsi anche la domanda se questa storia allargata al mondo ha un senso. E’ una domanda cui, ovviamente, non possono rispondere da soli gli storici: deve farlo la società nel suo insieme. Insomma, dobbiamo farlo tutti noi insieme.
Un’indicazione importante viene da Liliana Segre, che ha rivolto un appello al ministro Bussetti perché reintroduca la traccia di storia nel tema di maturità. Il ministero l’ha abolita, perché negli ultimi anni pochi studenti la sceglievano. Ma questa scarsa propensione per la storia è il sintomo di una malattia e abolire la traccia di storia alla maturità è come rompere il termometro quando si ha la febbre: non porta certo alla guarigione. Al contrario, aggrava la malattia: abolire questa traccia favorisce il tramonto della conoscenza storica che, come sottolinea Liliana Segre, è una necessità vitale per la nostra società. Lo dice pensando soprattutto alla Shoah, il cui ricordo è oggi a rischio per la progressiva scomparsa dei testimoni.
Tenere viva la conoscenza storica è uno dei pochi modi perché anche in futuro le giovani generazioni sappiano della Shoah. Ecco un esempio eloquente di una storia in grado di offrire senso e di esercitare forza attrattiva: il senso di ricordare questa enorme tragedia perché non si ripeta più. Basterebbe la Shoah per spiegare perché dobbiamo fare di tutto per salvare la storia finché il suo senso profondo emerga con forza.