Nelle ultime settimane, molte famiglie sono state impegnate nella scelta scolastica. Finito il trambusto, e magari per dare spazio a qualche ripensamento, vorrei proporre qualche riflessione a chi deve iniziare la scuola secondaria di secondo grado o deve decidere che cosa fare dopo il diploma. Posta la necessaria attenzione alle inclinazioni personali e alle attitudini, e cercando di smontare il pregiudizio, tanto sbagliato quanto difficile da sradicare, per cui i ragazzi migliori vanno al liceo, quelli di medie capacità agli istituti tecnici, i reduci da difficoltà e fallimenti all’istruzione professionale, e solo i più sfigati alla formazione regionale, penso sia utile dare un’occhiata alle possibilità offerte dal mercato del lavoro, che resta pur sempre la destinazione finale. Ricordo che molti anni fa si presentò a Lascia o Raddoppia un concorrente, peraltro molto simpatico, a cui uno zio facoltoso aveva lasciato una ricca rendita, fino al termine degli studi: l’astuto erede, giunto alla tesi, piantava tutto e si iscriveva a un’altra facoltà… Ma è un caso raro, anche per scarsità di zii facoltosi.
Le informazioni più accurate sulla domanda di lavoro vengono, ormai da una ventina d’anni, da Progetto Excelsior, una rilevazione dell’Unione italiana delle Camere di Commercio, che chiede ad alcune decine di migliaia di imprese di indicare quante assunzioni pensano di fare, di quali figure professionali pensano di avere bisogno e quali competenze richiedono ai neo assunti; restano fuori la pubblica amministrazione e i professionisti, ma si tratta pur sempre di oltre dodici milioni di persone, e una scelta adeguata accresce le possibilità di entrare a farne parte. I dati di quest’anno usciranno fra qualche settimana, ma confermano alcune tendenze che è importante conoscere, perché dalla licenza media al lavoro passeranno sei anni (per chi si ferma al diploma) o addirittura dieci o dodici per chi proseguirà all’università perché la durata media, 5-6 anni sulla carta ammesso che non siate in quel 60% che abbandona, è di più di sette anni.
La prima tendenza è ad una richiesta generalizzata di crescita della formazione. Studiare più a lungo è meglio, e l’Italia è purtroppo fra i paesi in cui la quota di giovani laureati è più bassa e cresce più lentamente, anche per una certa sfiducia delle famiglie, propense a pensare che studiare serve a poco, in un clima infestato da rapper, influencer e trend setter (potremmo puntare sugli interpreti…). Non è così: pur in una situazione di preoccupante disoccupazione giovanile, i laureati trovano lavoro più facilmente, e le imprese pensano di assumerne più di mezzo milione, in crescita costante. Attenzione, non si tratta solo di neolaureati, molti dei posti offerti richiedono esperienza, e saranno occupati da persone che si trasferiscono da un lavoro all’altro. Anche i diplomati sono molto richiesti, e da alcuni anni costituiscono circa un terzo delle entrate: la qualifica professionale è anch’essa stabile intorno a un quarto delle entrate, e fortunatamente cala la quota delle persone per cui non è richiesto uno specifico titolo di studio. Questo non significa sempre che si tratta di posizioni dequalificate: in qualche caso, semplicemente, per esempio nelle professioni “creative” avere un titolo o un altro è indifferente.
La seconda tendenza è la crescente richiesta di qualificazioni tecniche e scientifiche. Lauree e diplomi non hanno tutti lo stesso valore sul mercato del lavoro: si dice che in Italia i laureati sono non solo pochi ma “sbagliati”, con un eccesso di iscrizioni ai corsi umanistici, giuridici e socio-politici, mentre la domanda si rivolge soprattutto ai titoli cosiddetti Stem (science, technology, engineering and mathematics, e dato che serve l’inglese non traduciamo, così vi esercitate…).
La terza tendenza è la crescita del mismatch, del non collegamento fra professionalità offerte e domandate. Paradossalmente, in una situazione di disoccupazione che è fra le più gravi in Europa, ci sono decine di migliaia di posti offerti che non trovano candidati: un’anticipazione sui nuovi dati mi permette di dire che questi posti sono in costante aumento dall’anno scorso a quest’anno, il che significa che in media più di un posto su quattro non trova candidati disponibili o adatti. E’ chiaro che i titoli più utili sono quelli in cui la domanda delle imprese è superiore al numero di persone disponibili, indipendentemente dal valore assoluto, e qui c’è qualche sorpresa, come la difficoltà a trovare animatori turistici, o docenti di materie artistiche e letterarie nel settore privato, oltre a ingegneri, programmatori, personale sanitario, che forse ci aspettavamo. Come vedete, non si tratta solo di lavori dequalificati o faticosi! Le imprese cercano di arrangiarsi, ad esempio assumendo persone con caratteristiche simili, e formandole al proprio interno, ma questo comporta un notevole spreco di tempo e di risorse umane e finanziarie.
La quarta tendenza, o forse potremmo dire urgenza, è la necessità di agire per ridurre il divario sia sul versante delle persone, che su quello delle istituzioni. Nel caso dei diplomati, le imprese indicano come difficoltà principale a trovare la persona da assumere l’inadeguata preparazione (circa la metà dei casi), mentre per i laureati la preparazione parrebbe migliore, ma sono troppo pochi. E’ quindi necessario migliorare l’orientamento, per aiutare i giovani ad individuare la giusta via: moltissimi studenti abbandonanti, sia nella secondaria che all’università, portano come motivo proprio l’aver sbagliato la scelta, per mancanza di informazioni adeguate. Ma per indurre gli studenti a modificare le scelte è altrettanto importante, se non di più, agire sul versante dell’offerta di formazione: scuola e università dovrebbero fornire le competenze realmente richieste dal mondo del lavoro, moltiplicando le occasioni di raccordo e incrementando percorsi formativi più operativi e più brevi, come gli Its, pochi e poco conosciuti benché i diplomati abbiamo tassi altissimi di impiegabilità.
Un ultimo elemento che mi pare molto importante, e che richiama il valore educativo e non solo di istruzione del sistema scolastico e universitario, deriva dall’esame delle competenze richieste dalle imprese. A fronte di una relativa (relativa!) minore importanza delle competenze tecniche, alle cui carenze può supplire l’impresa, si sottolinea la crescente importanza delle competenze trasversali e non cognitive, come la flessibilità, la capacità di lavorare in gruppo, la capacità di risolvere i problemi; e sono ritenuti importanti anche quei tratti di personalità, come la decisione, la socievolezza, la coscienziosità, la stabilità emotiva, l’apertura all’esperienza, che vengono valorizzati o depressi in famiglia e nella scuola fin dai primissimi anni, e contribuiscono allo sviluppo complessivo della persona, di cui l’essere lavoratore è una dimensione, magari la principale, ma non l’unica.
Poiché queste competenze non cognitive si formano e crescono anche nel tempo libero, si riafferma la necessità di una collaborazione fra le diverse agenzie per ridurre le possibilità di una scelta sbagliata che abbatte non solo la possibilità di trovare lavoro, ma la possibilità di una realizzazione personale e di una piena partecipazione alla vita sociale.