L’apertura delle trattative con il Governo sulla regionalizzazione del sistema scolastico da parte delle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna evidenzia le diverse modalità che ciascuna vorrebbe adottare nella gestione delle politiche dell’istruzione e formazione espandendo poteri e responsabilità a scapito dello Stato, come peraltro già previsto nel Titolo V della Costituzione approvato nel 2001.
Esse hanno già in comune l’istruzione e formazione professionale, compresa quella superiore di competenza esclusiva delle Regioni, per quanto non sia stato ancora adottato un sistema di valutazione e certificazione comune, a livello nazionale ed europeo, che consenta il riconoscimento reciproco dei titoli. Inoltre, per la formazione professionale lo Stato dovrà decidere se mantenere inalterato il ruolo degli istituti professionali oppure scegliere il “doppio canale”, statale e regionale, secondo il dettato costituzionale che nel settore professionale accomuna istruzione e formazione.
Con la legge ordinaria i poteri delle Regioni potranno riferirsi a quelle materie che l’art. 117 della Costituzione individua come “competenze concorrenti” e la definizione degli spazi di “ulteriore autonomia”, ma non potrà giungere a farle diventare competenze esclusive come accade in quelle a statuto speciale. Tuttavia, l’applicazione dell’art. 117 non può essere ricondotta esclusivamente all’ampliamento dei poteri regionali, ma anche al completo decentramento dei poteri statali. Infatti, anche secondo le indicazioni europee, le competenze statali dovrebbero riguardare solo l’emanazione di norme generali sull’istruzione, invece in Italia è ancora radicata la gestione centralizzata e quasi totalizzante delle varie azioni di sistema.
Cosa si prefigura all’orizzonte? Apparentemente sembra tutto riconducibile alla disciplina regionale delle funzioni di organizzazione e amministrazione di carattere generale, nel quadro dei principi fondamentali stabiliti dallo Stato. Le Regioni dovrebbero definire le linee programmatiche di sviluppo dei servizi e alle autonomie locali rimarrebbe la competenza della loro gestione. Quindi sarà la Regione ad assumere il ruolo di indirizzo programmatico, di coordinamento, monitoraggio e valutazione degli esiti. In questo modo i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), stabiliti dallo Stato, potranno essere migliorati dalle Regioni e potrebbero sganciarsi dall’equilibrio nazionale, facendo valere la maggiore ricchezza territoriale.
Le richieste delle tre Regioni sono diverse. Il Veneto e la Lombardia spingono per la trasformazione delle competenze concorrenti in competenze esclusive, con la richiesta di sostituire lo Stato con la Regione. Più morbida la richiesta dell’Emilia Romagna, che propone una più articolata integrazione tra lo Stato e la Regione. Vedremo. Ma è abbastanza concreto il pericolo di un nuovo centralismo regionale che avoca a sé la programmazione della rete ed il dimensionamento degli istituti, il controllo degli organi di autogoverno delle scuole, condizionandone di fatto l’autonomia, che rischia di divenire funzionale ai nuovi “piccoli Stati”.
A mio avviso la prospettiva non può essere quella di aumentare le prerogative di una parte a spese dell’altra, ma di evitare le duplicazione degli interventi mettendo ordine nei poteri statali ed assegnando a quelli regionali la giusta dimensione. La competenza delle Stato dovrebbe essere più duttile ed ampia nell’area della legislazione concorrente; non più limitata a stabilire i problematici “principi fondamentali”, bensì ampliata alla disciplina funzionale del sistema scolastico a garanzia dell’unità giuridica ed economica della Repubblica. E’ opportuno salvaguardare l’unicità del sistema nazionale: norme generali, personale, curricolo comune, riconoscimento dei titoli. Ma anche ampliare il contributo (valore aggiunto) al costante miglioramento dell’intero sistema che le Regioni possono apportare: gestione della rete territoriale, valorizzazione delle risorse territoriali, programmazione, integrazione e qualificazione dell’intera filiera formativa.
Se così non fosse, la scuola potrebbe rappresentare l’apripista di un’Italia federale, che di fatto segnerebbe la fine dello Stato nazionale. A nulla sarebbero serviti secoli di storia che hanno portato ad unire piccoli staterelli e formare un popolo con una cultura e lingua comune e risuonerebbe attuale il “lamento” di Dante del XIII secolo: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave senza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di provincie, ma bordello!”
In questo orizzonte politico l’applicazione del principio di sussidiarietà verticale e orizzontale non può più eludere il riconoscimento pieno della dimensione pedagogico-didattica propria dell’autonomia scolastica costituzionalmente garantita. Le scuole non possono essere considerate un’appendice amministrativa, esse infatti sono “espressione di un’autonomia funzionale” (DPR 275/1999). Si tratta di un’autonomia terza che deve entrare a far parte del sistema delle autonomie territoriali. Purtroppo l’operazione di decentramento ministeriale avviata è stata progressivamente riassorbita dal centralismo burocratico. Pertanto, le scuole autonome non necessitano di cambiare “padrone”, ma al contrario di entrare a far parte di un “sistema” delle autonomie a beneficio delle comunità locali e nazionale. Un nuovo riassetto legislativo sulle autonomie locali e regionali potrebbe essere lo strumento per portare a compimento questa prospettiva che è attesa da tanti anni.