Caro direttore,
di recente ho avuto modo di partecipare ad un incontro che si è svolto a Bolzano (nel Liceo classico “Carducci”) intitolato “Dsa: liberi di apprendere, dalla scuola primaria alle lingue classiche”, sotto il patrocinio dell’Associazione italiana dislessia (Aid).

Nonostante la neve giunta abbondante in quel giorno, l’aula magna era insperatamente piena ed è diventata un’agorà rediviva per uno scambio e una condivisione tra le tre anime che per così dire sono chiamate a interagire e a collaborare per il benessere dell’alunno Dsa, cioè in possesso delle “caratteristiche” peculiari che qualificano il suo modo di imparare a scuola e di rapportarsi con il mondo. Io propendo per una nuova nomenclatura al posto di Dsa: Cpa ovvero caratteristiche peculiari di apprendimento.



Queste tre “anime” dunque sono chiamate in causa anche all’art. 2 della  legge 170/2010, dove si evidenzia una delle finalità più ambiziose: “incrementare la comunicazione e la collaborazione tra famiglia, scuola e servizi sanitari durante il percorso di istruzione e di formazione”.

Ci sono dunque l’anima educativa, l’anima didattica e l’anima clinica.



Il professor Ceriani, intervenendo su queste pagine a proposito della vexata quaestio della diagnosi precoce dei Dsa quando i bambini sono nella scuola dell’infanzia, rileva: “O la diagnosi precoce permette un intervento riabilitativo che porta a dei risultati concreti nel breve, medio periodo o inevitabilmente lo studente utilizzerà i cosiddetti vantaggi secondari del disturbo e si accontenterà dell’etichettamento. Perché l’esito della clinicizzazione è esattamente l’etichettamento”.

Il rischio della “clinicizzazione” è il pericolo o il fastidio che avverto in molti colleghi che insegnano greco antico e latino, durante le mie formazioni: sono docenti o infermieri?



Nell’incontro pubblico di Bolzano hanno dialogato, come relatori, chi scrive, in qualità di docente; due psicologhe ed esperte di disturbi di apprendimento, un genitore di una liceale dislessica e – a sorpresa – una giovanissima studentessa dislessica di terza media con il desiderio di andare al liceo scientifico delle scienze applicate (quello senza latino).

Nell’incontro si è evitato di dare troppe peso a una delle tre anime a scapito delle altre, cercando invece un confronto costruttivo per “declinicizzare” la visione che alcuni docenti hanno verso i ragazzi con Dsa e sensibilizzare le persone comuni che etichettano gli studenti con Dsa come svogliati e giovani “che non si applicano”, come si diceva fino a qualche tempo fa. 

Quali sono esattamente le “difficoltà” o le caratteristiche peculiari di un modo diverso di apprendere rispetto alla “normalità”? Si tratta di disturbi che hanno un codice specifico, come si legge nelle diagnosi rilasciate dagli specialisti dopo una serie di test riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale. Abbiamo, con il codice F81.0, il Disturbo specifico della lettura (mancanza di fluenza e accuratezza) che si specifica in Disturbo specifico di automatizzazione della lettura dislessia evolutiva (dislessia); in  F81.1: Disturbo specifico della compitazione/ dell’ortografia (disortografia); in F81.2: Disturbo specifico delle abilità aritmetiche (discalculia);  in F81.3: Disordine misto delle abilità scolastiche: comorbosità di disturbo specifico delle abilità aritmetiche e di lettura e/o ortografia; e infine in F81.8: Disturbo dell’espressione scritta (disgrafia in assenza di F81.1).

Destreggiarsi tra questi disturbi è “difficile” per il docente, già alle prese con le numerose sfide della scuola attuale, figuriamoci i genitori! Vale la pena leggere un bellissimo di Federica Magni, giornalista e mamma di un ragazzo cha ha scoperto tardi di “essere Dsa” (vedete come anche la lingua costringe ad “etichettare”!), alle prese con lo studio del greco e latino al ginnasio del liceo classico. Leggiamo una pagina de Il bambino che disegnava nuvole (Giunti, 2017): “Si ricomincia, tutto diverso e tutto uguale. I pellegrinaggi dai professori. Vengo in pace, vorresti dire appena li incontri. Hai bisogno di loro, non ce l’hai con loro. Provate a interrogarlo facendolo tradurre, vedrete che ce la fa. Se gli chiedete rosa, rosae, invece fallirà. Fingerai di non vedere il fumetto sopra le loro teste. Da che mondo è mondo, in latino e greco si recitano le declinazioni. Sarai cortese e insistente. Manderai e-mail al coordinatore di classe, spiegherai che a molti dislessici, e sicuramente a tuo figlio, difetta la memoria a breve termine e quella detta fonologica. Funzionano in modo diverso, non sono malati, è il tipo di prove richieste dalla scuola che li fa sembrare tali. Lo ripeterai all’intero consiglio di classe. La cantilena delle declinazioni non la sa dire, il suo cervello è biologicamente concepito in modo che non riesca a memorizzare e a ripetere con scioltezza sequenze di suoni senza senso, a meno di fatiche torturanti e dall’esito incerto. Qualcuno fingerà di saperlo, qualcuno penserà che stai esagerando. Ma quelle desinenze lui le conosce, la prova è che riesce a tradurre, non è questo che importa?”.

Che importa, dunque? Il dibattito bolzanino, in un nevoso venerdì, ha visto tutti d’accordo: a noi importano, cioè stanno a cuore tutti i ragazzi, in particolare se hanno “caratteristiche” tutte loro per imparare mentre diventano grandi.

La ragazza di terza media lo ha dimostrato, anzi lo ha insegnato, a tutti, soprattutto quando ha scelto il liceo senza il latino…