Seconda e ultima parte dell’articolo di L. De Bartolomeis pubblicato il 7 marzo (ndr)

Sorge poi il dubbio che l’orientamento scolastico verso la scuola superiore di secondo grado sia ancora effettuato come in epoca gentiliana, secondo i rendimenti e non secondo le attitudini.

A volte gli stessi operatori della scuola non hanno consapevolezza di come questo approccio generi raggruppamenti classisti e conseguenze dannose per il futuro dei giovani. È necessario garantire un dialogo strutturato sui temi educativi, che coinvolga anche gli adulti (così incidenti in questo snodo decisionale), per arginare ogni possibile strumentalizzazione ideologica, per non consegnare il confronto al dilettantismo dei social. C’è bisogno di un dibattito pubblico adeguato sui temi della ricerca educativa, sulla presenza di queste criticità che andrebbero quantomeno analizzate. Prima di formare i ragazzi bisogna istruire gli adulti.



I ragazzi devono imparare ad interagire con l’altro, ad arricchire la propria capacità di relazione, riconoscendo nella diversità una incredibile piattaforma di dialogo finalizzata alla formazione di “cittadini globali”. Gli adulti, a loro volta, devono imparare a rispettare e a riconoscere in questa relazione un’opportunità e non un problema, senza inseguire schemi preconfezionati, tendenze e classifiche. La mente si impoverisce e si impoverisce la società tutta se ci si confronta solo con le proprie strutture di appartenenza.



Abbiamo un quadro più che sufficiente di indicatori che delineano responsabilità a più livelli. Leggi e decreti forniscono gli strumenti per un’azione corretta ma qualcosa non va, non solo fuori ma anche dentro la scuola.

Terminato il primo ciclo di istruzione gli studenti devono decidere quale indirizzo di scuola superiore scegliere. Ed è in questo fondamentale raccordo che il paese dimostra la sua capacità di offrire pari opportunità educative agli studenti, assegnando alla scuola il compito di appianare le disparità sociali.

Il professor Daniele Checchi, docente di economia politica nell’Università degli studi di Milano, ha mostrato con le sue ricerche che spesso sono gli stessi insegnanti a essere influenzati dalla classe sociale di appartenenza nei consigli orientativi, che vanno poi ad ancorarsi a un sistema di istruzione secondaria rigidamente diviso in indirizzi ben distinti tra loro e dove la scelta avviene in “un’età in cui l’influenza dei genitori è ancora forte”.



Cecchi rileva, ad esempio, che già nella fase di orientamento, “gli insegnanti nel formulare i loro consigli non si limitano ad una valutazione delle risultanze scolastiche oggettive dei ragazzi ma tengono anche conto della famiglia di provenienza”. Sono gli stessi insegnanti ad essere condizionati “dalle pressioni direttamente o indirettamente provenienti dall’ambiente circostante”. In realtà gli insegnanti sono “preoccupati che le famiglie non riescano a fornire il supporto economico necessario a intraprendere carriere più lunghe e rischiose”, spesso cercano il confronto, a volte assecondano. Il punto è che la scuola non può essere lasciata da sola a fronteggiare un esercito di pregiudizi.

Dagli studi di Cecchi “si nota che il figlio di un genitore laureato ha una probabilità nulla di ricevere un orientamento verso la formazione professionale e molto raramente (meno del 10%) una indicazione di un istituto di formazione professionale”.

Il professore Francesco dell’Oro, responsabile del Servizio Orientamento del comune di Milano, evidenzia un dato allarmante. Tra le numerose richieste di aiuto provenienti dai ragazzi delle scuole superiori oltre il 50% proviene dai licei classico e scientifico. Si tratta di adolescenti che chiedono di cambiare indirizzo scolastico. “O i ragazzi fanno scelte non consapevoli – commenta Dell’Oro – oppure i genitori fanno troppe pressioni. Mi accorgo che spesso è vera la seconda, soprattutto quando si tratta di professionisti: ingegneri, medici, i più in difficoltà nell’accettare per i figli un corso di studi diverso dal liceo classico o scientifico e prevenuti addirittura anche verso i licei delle scienze umane”.

Il nostro sistema, ancora imbrigliato in una rigida divisione delle materie, non aiuta i ragazzi a scoprire passioni e capacità. Un dato interessante è stato raccolto da Alma Laurea, il consorzio che fa capo all’Università di Bologna: il 47% dei laureati interrogati sulla stessa scelta fatta a 14 anni si dichiara pentito. Certe decisioni, a un certo punto, diventano irreversibili. È difficile tornare indietro malgrado la possibilità di cambiare indirizzo durante il percorso.

Il cuore della scuola dovrebbe essere un orientamento da costruire sulla base delle attitudini e dei talenti. Le divisioni invece sono tanto banali quanto ricorrenti: i ragazzi con buoni risultati ai licei, quelli con risultati meno brillanti ai tecnici, gli altri ai professionali. Ecco il nostro orientamento. Così si perdono i talenti, si impoverisce il paese, si sprecano vite.

Occorre fare in modo che tutti gli studenti possano fare esperienza diretta, nei tanti momenti di “apertura” offerti dalle scuole, della realtà di tutte le istituzioni e non solo di alcune. Una volta vissuta l’esperienza, occorre rivedere, discutere, ragionare insieme a genitori e docenti.

La formazione implica lo sviluppo delle competenze e la prima di queste è “imparare a imparare”, competenza che si raggiunge solo seguendo le proprie passioni.

La passione è l’unico vero motore per una continua ricerca d’innovazione, l’unica strada per costruire un futuro che somigli il più possibile all’idea che si ha di sé. Ora, se circa il 50% di adulti dichiara che, se potesse tornare indietro, cambierebbe la scelta fatta in gioventù, è del tutto evidente la responsabilità che abbiamo nei confronti dei nostri ragazzi.

Siamo immersi in un mondo complesso, in cui cambieremo spesso lavoro, in cui le competenze necessarie sono sempre più ampie e in cui occorre imparare ad apprendere lungo tutto l’arco della vita, per navigare in una “modernità liquida” e dinamica. Un mondo in cui sono determinanti passione, coraggio ed empatia. Un mondo in cui, citando Pier Luigi Celli, sono e saranno sempre meno importanti i curricula e sempre più importanti le biografie. E le biografie non si costruiscono dove vanno tutti, non si costruiscono accumulando numeri per le scuole o titoli “blasonati” per gli studenti.

(2 – fine)