Il dibattito sul “valore legale dei titoli di studio” è molto antico e, riferito ai diplomi di laurea, è tornato in voga anche in Italia negli ultimi mesi. Ma ha senso di parlare di “valore legale del titolo” riferendosi al diploma di istruzione superiore?

Fino a pochi anni fa alcuni diplomi consentivano l’accesso agli esami di Stato di alcune professioni (es. perito industriale, geometra, etc.). Le riforme dei requisiti di accesso alle professioni che si sono succedute negli ultimi due decenni, però, hanno traslato più avanti (laurea triennale) i requisiti di accesso. Questo ha fatto sì che il valore legale “residuo” del diploma sia permettere a chi lo ottiene l’accesso ai corsi universitari.



È quindi su questo ultimo punto che bisogna riflettere e qualsiasi ipotesi di riforma deve ragionare su tre pilastri:

1) incentivare i comportamenti virtuosi, cioè costruire un sistema in cui gli studenti percepiscano come vantaggioso portare a termine il percorso di studi;

2) prevedere meccanismi che diano la possibilità a chi ripete alcune materie di raggiungere la fine del percorso, magari con un anno di studi addizionale, e permettano a chi proprio non ce la fa di concluderlo certificando i risultati parziali raggiunti;



3) strutturare l’esame di Stato in modo da segnalare alle università i livelli di competenza raggiunti dagli studenti.

Partiamo dai primi due punti. La nostra proposta di riforma dei cicli prevede “un triennio di scuola secondaria di secondo grado, nel quale gli indirizzi sono realizzati attraverso una ampia opzionalità e diversificazione disciplinare”.

All’interno di questa cornice abbiamo inserito il concetto di bocciatura selettiva: al termine di ogni anno, gli alunni che non hanno raggiunto il profilo di competenza previsto avanzano comunque all’anno successivo ma devono ripetere tutte e sole le materie in cui sono risultati insufficienti.



Chi conosce bene le dinamiche di uno scrutinio di fine anno, sa che questa proposta libera il consiglio di classe dallo “spauracchio della ripetenza” e permette ai docenti di assegnare agli alunni delle valutazioni che rispecchino veramente il loro livello di competenza.

La “possibilità di fare un esame di recupero se intendono rimettersi in pari” di cui parliamo nel manifesto e che tanto ha scandalizzato i colleghi del Gruppo di Firenze, significa che la scuola attiva nei mesi estivi una sorta di “Summer School” intensiva – tutt’altra cosa rispetto ai corsi di recupero che facciamo oggi – focalizzata al recupero delle singole discipline. Al termine del corso, si valuta se l’insufficienza è stata davvero recuperata, o meno, con un esame che può essere completo e selettivo proprio perché il suo esito non determinerà un’eventuale bocciatura totale. Il carattere facoltativo di questi corsi, poi, serve per responsabilizzare gli studenti, facendo loro scegliere su quali materie concentrare il recupero estivo e quali, eventualmente, ripetere con più calma nell’anno successivo. 

Come è chiaro a tutti, introducendo una qualsiasi forma di “bocciatura selettiva”, al termine del percorso ordinario vi sarà una buona parte di studenti che non ha raggiunto il profilo di competenze di uscita per tutte le materie previste dal curricolo.

Dobbiamo, quindi, pensare a come strutturare il sistema per incentivarli a concludere il percorso con successo e a non spingerli verso un abbandono precoce, vera e propria piaga del sistema attuale.

Nella scuola superiore di oggi, infatti, tante ragazze e tanti ragazzi, dopo due o più bocciature rimediate nei primi anni di superiori, decidono di abbandonare la scuola. Lo fanno perché hanno adempiuto all’obbligo di istruzione e, dopo le tante bocciature, non riescono a immaginarsi alla fine del percorso: il diploma è molto distante e gli ostacoli che hanno portato alle bocciature sono ancora tutti lì, percepiti come quasi insormontabili.

La bocciatura selettiva permette agli studenti di guardare con più serenità al loro percorso di studi e di affrontare gli ostacoli con i propri tempi, senza essere costretti a ripetere tutte le materie. Giunti in prossimità del traguardo, dopo tre anni di studio e con solo alcune materie da recuperare, un anno aggiuntivo per completare il proprio curricolo con le discipline lasciate indietro può essere sufficiente.

C’è però una quota residuale di alunni che anche in questo modo non riuscirà a completare il percorso di studi. Una scuola inclusiva deve pensare anche a come far sì che questi alunni esprimano il massimo delle loro potenzialità, anche se questo non consentirà loro di raggiungere pienamente il profilo di competenze previsto. L’idea può essere, quindi, di rilasciare dopo i quattro anni di studio (3 canonici più 1 addizionale) un attestato che certifichi i livelli di competenza raggiunti.

E l’esame di Stato?

Qui vanno conciliate due necessità: la prima, collegata all’articolo 34 della Costituzione, di fare in modo che “i capaci e i meritevoli possano raggiungere i gradi più alti degli studi”, la seconda di permettere alle università di modulare l’offerta formativa e, dove necessario, selezionare gli studenti in ingresso.

In questo contesto l’esame di Stato può mantenere un valore legale solo se rinuncia ad essere piatto e si riforma per fornire agli studenti quell’effetto di segnalazione che oggi non c’è e che “costringe” le università ad attrezzarsi in modo autonomo con dei test d’ingresso.

Come fare? Un’ipotesi potrebbe essere la seguente, che si ispira al sistema scolastico finlandese.

Innanzitutto possono accedere all’esame di Stato tutti e soli gli studenti che hanno completato con successo il loro percorso di studi. Ne sono esclusi, quindi, quelli a cui viene solo rilasciata l’attestazione con le competenze raggiunte.

Quindi, nei diversi indirizzi, l’esame si articola su quattro prove che riguardano quattro discipline, tre facenti parte del curricolo base (italiano, matematica e inglese) e una scelta tra quelle che caratterizzano il corso (ad esempio informatica). Lo studente può scegliere di svolgere ogni prova a un livello di difficoltà base oppure avanzato, ma deve almeno affrontare due materie su quattro a livello avanzato.

Chi non supera l’esame di Stato lo può affrontare nuovamente nella sessione successiva, che potrebbe essere a cadenza semestrale, oppure accontentarsi dell’attestato di certificazione delle competenze. Solo chi lo supera, però, può accedere ai corsi universitari.

A cosa serve differenziare il livello di competenza nelle singole materie? Pensate a una facoltà di ingegneria informatica: il requisito per potervi entrare potrebbe essere, per esempio, il superamento delle prove di informatica e matematica a livello avanzato. Nella facoltà di lettere il requisito potrebbe, invece, riguardare le materie umanistiche e così via.

L’esame di Stato diventerebbe utile, quindi, sia agli studenti come forma di orientamento in uscita, sia alle università come strumento di selezione in ingresso. E il “valore legale del titolo” tornerebbe ad avere senso.