La parità scolastica è ormai acquisita, ma al ribasso. Come tutti sanno, stenta a farsi strada, a diventare un modello organizzativo per l’istruzione italiana, anche in quei ceti politici che ideologicamente non sono contrari a priori.
Realizzata, almeno sulla carta, nel 2000 con la legge 62 dall’allora ministro Luigi Berlinguer, in seguito è sempre stata tollerata dai governi di centrosinistra e centrodestra. Le ragioni sono molteplici, recenti e meno recenti. Se torniamo indietro nel tempo, la prima responsabilità la dobbiamo attribuire alla Democrazia Cristiana, che, commettendo uno degli errori più gravi nel dopoguerra, pur mantenendo il controllo politico sul ministero della Pubblica istruzione, non si smarcò mai da quello statalismo dominante, che pervase molte azioni di governo, in tanti settori. Dovendo scegliere un modello di Stato per la ricostruzione delle istituzioni e delle infrastrutture, optò per quello centralista e, come è noto, don Luigi Sturzo, rientrato dall’esilio nel 1946 e messo ai margini del partito come padre nobile, non riuscì più a sostenere il suo liberalismo sociale che vedeva nei corpi intermedi (famiglia, classi sociali eccetera) i principali soggetti utili a favorire lo svilupparsi dei dettami costituzionali.
Finito il centrismo, fu ancora lo statalismo il luogo del compromesso, prima con i socialisti, poi con i comunisti e infine con i laici, che spesso imposero un laicismo burocratico secondo cui la scuola, uguale da Bolzano a Palermo, doveva essere sempre più libera dalle influenze cattoliche.
Fu in quegli anni che nacque l’erronea distinzione tra scuole pubbliche statali e quelle private. Le prime buone e atte alla formazione dei giovani, le seconde di serie B e intrise di faziosità culturale, da non toccare però, perché garantite dalla stessa Dc, che come partito di maggioranza relativa, pur privilegiando la governabilità al popolarismo politico, era impegnata a difendere le proprie rendite politiche in termini di voti.
Con la Seconda Repubblica l’intuizione di Berlinguer progredì solo in parte e fu Roberto Formigoni in Lombardia a dare piena attuazione alla parità scolastica con la legislazione del cosiddetto Buono scuola (ordinamenti simili furono attuati anche in Liguria, Veneto e nella rossa Emilia Romagna). Con la sconfitta della rivoluzione liberale di Berlusconi, né la Moratti, che scelse di dare il ruolo ai docenti di Religione al posto dell’effettiva parità alle scuole non statali, né Mariastella Gelmini puntarono sul pieno riconoscimento di quelle scuole. E’ concesso a queste istituzioni scolastiche un finanziamento annuo di 500 milioni, ridotto negli anni per via della crisi del nostro debito sovrano, che è divenuto come una sorta di merce di scambio: da una parte, non si alza tanto la voce; dall’altra, (anche i Cinque Stelle) non si metteranno di traverso per abolirlo.
Bisogna allora chiedersi perché oggi i partitini di centro e la Lega, tradizionalmente più legati alle realtà locali e al principio di libertà di educazione, abbiano cancellato dalla loro agenda l’attuazione di un sistema scolastico statale-paritario, che tra l’altro una seria valutazione costi/benefici renderebbe palese come si potrebbero attuare ampi risparmi nel settore dell’istruzione.
Sui primi, ovviamente, pesa la scarsa rilevanza politica, ma anche una perdita di legame con i princìpi del solidarismo cattolico, frutto anche del frullatore culturale della cosiddetta “società liquida”.
Il mondo di Matteo Salvini è un po’ più complicato da decifrare. I leghisti sono nati nelle valli bergamasche, ambito in cui è più apprezzato chi lavora con un sacco di cemento sulle spalle, e non hanno, a partire da Umberto Bossi, mai avuto particolarmente a cuore il mondo della scuola. E’ infatti risaputo che vicino alle Prealpi lombarde spesso si dica che “chi non sa lavorare, insegna”. A parte un certo pragmatismo da piccola impresa artigiana, la mancata elaborazione di un pensiero sui temi educativi e dell’istruzione, nella Lega sembra un peccato d’origine. Puntando prevalentemente sul ceto artigiano, sulla piccola impresa e quindi sulla produzione della ricchezza da parte dei privati, la scuola è sempre stata vista come una fonte di spesa pubblica, una sorta di vuoto a perdere.
In fondo tra le file di questo partito, che nelle ultime performance elettorali sembra dilagare nello Stivale con percentuali oltre il 30%, non c’è mai stato chi si occupasse e riflettesse seriamente sull’istruzione, se non accettando, obtorto collo, impostazioni mutuate dalla parte cattolica di Forza Italia, al tempo dei governi Berlusconi. L’assenza di un’elaborazione culturale e la mancanza di dirigenti competenti su queste tematiche, si riflette anche sulla sudditanza al compromesso di questi mesi.
In fondo la Lega sembra commettere gli stessi errori della Dc, perché in nome del contratto e dell’alleanza di governo, subisce sui temi della scuola una sudditanza politica. Preferisce accettare modelli culturali statalisti e centralisti, più che puntare su un sostegno alle famiglie e alle scuole del territorio, come quelle paritarie.
E’ vero che attualmente alla guida del Miur c’è Marco Bussetti, leghista lombardo e già dirigente periferico del ministero, ma in un anno di governo, oltre a ridurre gli eccessi della gestione del Pd e attuare l’ennesima riforma dell’esame di maturità, non sembra che si sia messo mano a un’intensa riflessione sui temi dell’istruzione e dell’università.
In politica ci si può improvvisare, ma quando tocca il governo di una nazione, ciò che non c’era prima, non arriva dopo.