Continua l’approfondimento del sussidiario sui disturbi specifici di apprendimento (Dsa). Dopo le due interviste a Luca Luigi Ceriani, interviene Annalisa Zacchetti, psicologa e neuropsicomotricista, segretaria nazionale di Anupi Tnpee (Associazione nazionale unitaria terapisti della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva italiani). “La competenza richiesta a un adulto in relazione a un bambino o un ragazzo con Dsa – dice Zacchetti – è quella di aprire una via che l’altro abbia desiderio di percorrere”.  



È vero che i Dsa hanno un’origine neurobiologica? Se sì, la conoscenza di questo aspetto come cambia l’affronto delle difficoltà relative ai disturbi di apprendimento? 

In realtà ci sono varie teorie che tentano di spiegare a livello neurobiologico la questione del Dsa, ma personalmente non credo che sia fondamentale questo aspetto perché il nostro cervello ha una grande plasticità ed è in grado, se opportunamente sollecitato e accompagnato, di trovare soluzioni alternative. Piuttosto è importante cercare di comprendere quali sono le difficoltà specifiche di ogni bambino o ragazzo. È vero che ci sono caratteristiche simili nel Dsa, ma ognuno, a seconda della propria storia personale, dell’ambiente socio-culturale in cui vive e degli incontri che fa può affrontare in modo diverso le proprie difficoltà.



Qual è la funzione della diagnosi di Dsa? Rappresenta la fine o l’inizio di un percorso?

 Ogni diagnosi rappresenta un inizio, non una fine e men che mai una “etichetta”. Forse sono un po’ controcorrente dicendo che non sarebbe nemmeno necessaria una diagnosi se si imparasse a trattare, sia come genitori che come insegnanti, i bambini e i ragazzi che abbiamo davanti, come persone uniche; l’esperienza professionale mi porta a ritenere che l’intervento scolastico debba sempre essere individualizzato. Intendo con questo la capacità di dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno. Potremmo rifarci a una grande figura italiana vissuta a cavallo fra l’ottocento e il novecento, mi riferisco a Maria Montessori, medico, neuropsichiatra, filosofo e pedagogista; la sua intuizione grandiosa fu quella di applicare le scoperte pedagogiche, utilizzate inizialmente con bambini affetti da problemi psichici, anche ai bambini cosiddetti normo dotati. Il pensiero era che se queste modalità avevano successo con bambini problematici tanto più dovevano averne con bambini considerati “nella norma”. Il metodo Montessori era individualizzato e partiva dal desiderio del bambino. L’adulto pertanto era un facilitatore: accompagnava e sosteneva il desiderio del bambino nell’apprendere. Quando il bambino fa fatica a scuola, si scoraggia e smette di investire nell’avventura della conoscenza. Per questo è importante da parte dell’adulto mettere in gioco degli ausili. È come un fuoco che si sta per spegnere e ha bisogno di qualcuno che lo riattizzi…



Si riferisce agli strumenti compensativi e dispensativi? Servono realmente e aiutano a migliorare le prestazioni? Per la sua esperienza come vanno applicati?

Tutti gli ausili hanno a che fare con la ricerca di modelli alternativi di apprendimento. L’errore che certamente occorre evitare è quello di farne un uso schematico, uguale per tutti. La competenza richiesta a un adulto in relazione a un bambino o un ragazzo con Dsa è quella di aprire una via che l’altro abbia desiderio di percorrere. Senza il desiderio non abbiamo strumenti: anche la riabilitazione e la messa a disposizione di facilitazioni e ausili entrerebbero in impasse. Quando attraverso gli aiuti la strada della conoscenza torna ad essere percorribile, magari ancora in modo sconnesso e incerto, la passione del soggetto riprende vigore e con essa tutto il suo io. La competenza di cui parlo richiede una conoscenza approfondita degli ausili e delle tecniche d’aiuto, ma anche della sensibilità e, in senso generale, della psicologia del singolo ragazzo o bambino. Se l’uso di certi ausili rischiasse di “ghettizzarlo” all’interno della classe sarebbe meglio astenersi dal loro utilizzo, fin tanto che non si verifichino condizioni più favorevoli.

Può fare un esempio?

Sto lavorando con un bambino che parallelamente viene valutato da un centro specialistico in funzione di una possibile diagnosi di Dsa. Su incarico dei genitori ho fatto da mediatrice con la scuola proponendo agli insegnanti di soprassedere temporaneamente rispetto alla diagnosi, per dare al bambino la possibilità di mettere in campo tutte le proprie capacità. L’idea che abbiamo seguito è stata quella di permettere a tutti gli alunni di accedere liberamente agli strumenti compensativi e dispensativi in base al proprio bisogno soggettivo. I bambini sapevano che c’erano questi aiuti e li hanno usati, chi più, chi meno, chi per nulla. In questo modo il bambino che seguo si è trovato perfettamente a suo agio e l’uso degli ausili specifici non gli ha creato alcun imbarazzo. Lo sguardo benevolo e gli interventi appropriati dalle insegnanti lo stanno indirizzando sulla strada della scoperta delle le proprie soluzioni e del proprio metodo di apprendimento.

Come valuta la collaborazione tra la scuola la famiglia e i terapeuti che seguono i bambini o i ragazzi?

Nel caso descritto non ho incontrato ostacoli da parte delle insegnanti, piuttosto tutta la collaborazione possibile in un lavoro sincrono fra scuola, famiglia e terapia. L’ipotesi condivisa è stata quella di verificare i progressi del bambino monitorando al tempo stesso le sue difficoltà e le strategie che mette in campo per risolverle. Con il passaggio alle medie valuteremo nuovamente la possibilità di farlo certificare, ma allora il bambino sarà più grande e sarà più semplice spiegargli le motivazioni di questa scelta e cosa questa comporta. Tuttavia non è sempre così facile. In merito alla collaborazione si incontrano spesso anche difficoltà.

Da cosa dipende?

In gioco c’è soprattutto un rapporto fiduciario dove il ruolo della scuola è quello preminente. Senza fiducia reciproca anche gli aiuti diventano ostacoli. Un altro tema è l’ansia. La preoccupazione che i figli restino indietro rispetto ai programmi. Allora, per fare un esempio, gli screening, che dovrebbero essere degli aiuti, possono diventare uno spauracchio.

Cosa sono gli screening e qual è la loro funzione?

Gli screening constano di una batteria di esercizi graduati secondo l’età che vanno a monitorare l’apprendimento dei bambini in determinate fasce d’età e vengono somministrati a scuola, con un eventuale supporto dello psicologo, ma non si tratta di una certificazione. Tutti i bambini sono in genere sottoposti a questi screening, pertanto non ci sono discriminazioni. Ovviamente è importante come questi esercizi vengono proposti: potrebbero rientrare nelle normali verifiche che vengono fatte in classe offrendo agli insegnanti indicazioni sullo stato di apprendimento della classe e del singolo. Avuta la “fotografia” della situazione la scuola può attuare le azioni di supporto valutando i tempi di recupero di ciascun bambino. Solo più tardi, in caso di permanenza delle difficoltà, si potrà arrivare alla certificazione con tutto ciò che ne consegue.

Sta suggerendo di non avere troppa fretta? 

È bene ricordare che la diagnosi di dislessia non può essere fatta che alla fine della seconda elementare. La diagnosi di discalculia invece può essere fatta a partire dalla fine della terza classe della primaria. Prima della diagnosi c’è quindi lo screening che permette di mettere in campo gli aiuti di cui si è parlato, nel rispetto dei tempi del bambino. Screening fatti addirittura nella scuola dell’infanzia non hanno molto senso. Rischiamo di chiedere anzitempo delle performance di astrazione, di cui il bambino peraltro non è ancora capace, senza dargli la possibilità di sperimentare attraverso il gioco il proprio corpo e il proprio movimento e di formare delle tracce mnestiche che rimarranno indelebili dentro di lui e costituiranno l’impianto base su cui si costruirà in futuro la sua capacità di apprendimento e di astrazione.

Il tempo speso dagli insegnanti, dalle famiglie e dagli studenti per affrontare i Dsa può essere messo a frutto e per l’intera classe?

Non solo è possibile. Sarebbe anche auspicabile. Perché le nuove scoperte fatte nel campo del Dsa posso avere importanti ricadute anche nella didattica generale.

(Luigi Campagner)