O greggia mia, […] se tu parlar sapessi, io chiederei: / dimmi: perché giacendo / a bell’agio, ozioso, / s’appaga ogni animale; / me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?”. Con queste parole il pastore errante dell’Asia, nel famoso Canto notturno di Leopardi, chiede alle sue pecore perché la propria vita e quella di tutti gli uomini sia così afflitta della noia, dalla mancanza di entusiasmo, dal “tedio”.



Gli fa eco una studentessa del quarto anno delle superiori di Bagno a Ripoli: “Quante volte ci è capitato di svegliarci la mattina e di essere già stanchi prima ancora che fosse iniziata la giornata? Quante volte ci è capitato di sentire, in altri termini, che i minuti ormai fossero diventati tutti uguali e fissi?”. E poi prosegue, individuando uno dei principali colpevoli di questa condizione quotidiana: “Ho sempre pensato che la scuola mi stesse annullando. Per questa ragione spesso l’ho profondamente odiata. Eppure, in questi tre giorni trascorsi ai Colloqui Fiorentini, incredibilmente, non vedevo l’ora che quella sveglia suonasse”.



E poi, cercando di capire quale sia l’elemento che rende così interessante questo convegno, dice: “Eppure, mi sono ripetuta, si parlava di letteratura, si discuteva sul significato delle poesie di un autore. E allora cosa c’è stato di così diverso e speciale da avermi percosso in questo modo?”.

È possibile che un convegno di letteratura come i Colloqui Fiorentini, un momento di scuola e di studio, possa rivelarsi un evento che percuote e cambia per sempre la vita?

Risponde uno studente di Bari: “I Colloqui quest’anno inaspettatamente mi hanno fatto rendere conto dell’importanza del silenzio, della mia urgenza di bellezza, del mio ‘scordato strumento cuore’. Sono stati un’occasione di commozione e un incontro non solo con il poeta, ma anche con gli altri studenti e con me stesso. Mi hanno fatto bene all’anima”.



Difficile parlare diversamente dei Colloqui Fiorentini, difficile dire con altre parole che esperienza umana, culturale e didattica da diciotto anni abbia invaso la scuola italiana. Ci sarebbero i numeri e i dati – che già di per sé fanno riflettere, in un tempo in cui la scuola ha sempre meno valore per la politica e per la società tutta – a documentare la portata di questo convegno nazionale di letteratura italiana: 200 scuole di ogni ordine superiore da tutte e 20 le regioni d’Italia; abbattuto il muro delle 4mila presenze; 436 docenti; 812 tesine prodotte dagli studenti del biennio e del triennio; decine di produzioni artistiche e narrative; tre giorni di studio e di approfondimento culturale con relazioni di docenti universitari, poeti, saggisti, scrittori. E da quest’anno I Colloqui Fiorentini sono sbarcati in Gran Bretagna, con la partecipazione dell’Istituto Tasis The American International School in England di Thorpe; ospitano un dottorando, studioso di Leopardi, dall’Università日本国 del Giappone; registrano la presenza di 12 università italiane: Firenze, Napoli, Verona, Ferrara, Chieti, Urbino, Macerata, Cassino, Bologna, Padova, Pisa e Torino.

E così, mentre il nostro Paese attraversa una crisi educativa e culturale senza precedenti, I Colloqui Fiorentini vedono aumentare di anno in anno le adesioni: dalle 3mila di due anni fa alle 3.500 della passata edizione, alle più di 4mila di quest’anno. Ormai solo il Mandela Forum, palazzetto dello sport di Firenze, è in grado di contenere il popolo dei Colloqui, la marea di docenti e giovani studenti che ogni anno per tre giorni invade la città più bella del mondo.

Questo dicono i numeri, ma, come già accennato, I Colloqui Fiorentini sono un evento che travalica i dati tecnici, per accedere di prepotenza ad un livello che, di nuovo, solo le parole di chi li ha vissuti possono documentare: “A scuola”, continua la studentessa di Bagno a Ripoli, “spesso impariamo a mascherare le emozioni […] questo almeno è quanto mi è stato trasmesso. Ai Colloqui Fiorentini no. Durante le conferenze e i seminari letterari eravamo invece alla ricerca sfrenata dell’autenticità, una vera novità per me, lo ammetto. Non che non ne abbia mai sentito il bisogno, anzi, per me i Colloqui hanno simboleggiato il raggiungimento concreto di quella vera profondità di cui sentivo particolarmente la mancanza”.

Ecco di cosa sentono la mancanza i giovani oggi. Quei giovani che si sballano il sabato sera (e ormai anche il venerdì sera, visto che in sempre più scuole c’è la settimana corta), quei giovani che crescono senza prospettive, spesso determinati da un’ignoranza imbarazzante, ma soprattutto dalla mancanza di una visione della vita e quindi senz’alcuna apparente possibilità di introdurre un cambiamento reale nel mondo e nella società. Insomma, quei giovani di cui ci lamentiamo continuamente, senza accorgerci che sono il riflesso della nostra arrendevolezza, della nostra mancanza di speranza. Perché un ragazzo diventa chi guarda e i nostri giovani guardano a noi, noi, che non siamo il loro passato, ma il loro futuro, l’immagine del futuro che li aspetta.

Spesso li osservi mentre con la lingua fra i denti si impegnano in una verifica, o più spesso, con lo sguardo perso davanti a sé, abbandonano la lotta; oppure non registrano neppure il problema (“Prof, non mi riesce, non lo so; posso riprendere il cellulare?”); o si rifanno il make-up durante la lezione (“Prof, oggi non possiamo fare la foto di classe. Non ci avevano detto che passavano oggi e non ci siamo truccate per bene!”) e poi li trovi nel corridoio a piangere disperati per un’interrogazione andata male, perché è l’ennesimo fallimento dopo quello della famiglia sfasciata, del ragazzo o della ragazza che li ha lasciati, del cane che è morto (vera tragedia familiare) o chiami l’ambulanza per l’ennesimo attacco di panico e svenimento. Oppure scambi quattro parole con loro e scopri che non dormono mai nella stessa casa: oggi dalla nonna, ieri notte dal babbo, fra due giorni dalla mamma, nel frattempo dall’amica del cuore. E allora come fai a pretendere che abbiano la giustificazione per il giorno dopo o che abbiano portato tutti i libri (“Prof, li ho lasciati nello zaino che ho a casa del babbo, perché stanotte ho dormito da mamma”).

Certo, esigi che siano maturi e responsabili e che portino il materiale per fare la lezione, ma dentro di te piangi per loro e pensi che tu hai avuto un’unica casa in cui tornare, un letto in cui dormire, un solo zaino e una sola mensola in cui riporre i libri. Che disordine, che disperazione! Mi viene sempre in mente quest’immagina: sono dei cuori grandi così, senza le gambe per stare su e camminare.

Ecco, questi giovani, proprio questi giovani così fatti, sentono la mancanza di autenticità, sentono il desiderio di verità, di profondità, di qualcuno che allarghi loro lo sguardo (“Non che non ne abbia mai sentito il bisogno, anzi, per me i Colloqui hanno simboleggiato il raggiungimento concreto di quella vera profondità di cui sentivo particolarmente la mancanza”). In fondo, i nostri studenti intuiscono cosa manca loro, ma non hanno chi glielo consegni, glielo indichi e cammini con loro.

I Colloqui Fiorentini sono proprio per questi studenti. Penso a una mia studentessa che all’ultimo anno non riesce più a studiare, a impegnarsi, non ne ha più voglia. E io, che avevo scommesso molto su di lei, spesso sono tentato di guardarla a partire dal suo fallimento e dalla delusione che mi sta dando: ecco, l’ho sopravvalutata, in realtà è una normale studentessa. E poi ieri prima di entrare in classe mi chiede se a lezione può presentare lei una poesia di Leopardi, Il sabato del villaggio. Lo fa molto bene, timida, ma appassionata. Alla fine le chiedo: “Come mai hai scelto questa poesia?”. “Perché è la prima in assoluto, la prima poesia che ho mai letto e me l’ha spiegata mio fratello, verso per verso, facendomi vedere tutti i personaggi, la donzelletta, lo zappatore, il falegname, la vecchierella, che sono pieni della fatica del loro lavoro, ma anche di una speranza, felici di una speranza per la festa che sta per arrivare. E a me piace tantissimo questa cosa”.

Questi studenti così fatti, così desiderosi, sono normalmente traditi dalla scuola e dai loro insegnanti, che lamentano che Dante, Pascoli, Leopardi siano sentiti così estranei dai loro alunni, senza capire che la causa sono proprio loro, tutte le volte che spiegano gli autori tutti preoccupati solo di far capire che Leopardi era neoclassico (oppure romantico?), pessimista storico (oppure cosmico o invece era realista?), conservatore (ma anche progressista); e non lo vedono più, non ascoltano le sue parole: “Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno. // Che pensieri soavi, / che speranze, che cori, o Silvia mia! / Quale allor ci apparia / la vita umana e il fato”, oppure “Senza dubbio, mio caro amico, bisognerebbe o non vivere proprio o sempre sentire, sempre amare, sempre sperare”. O ancora: “Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico? e se la felicità non esiste, che cos’è dunque la vita? Io non ne so nulla…”. Ma anche: “Or poserai per sempre, / stanco mio cor. Perì l’inganno estremo, / ch’eterno io mi credei. E anche: “All’apparir del vero / tu, misera, cadesti: e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano”. E ancora: “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male”.

Non è forse questa la vicenda del cuore dei nostri ragazzi? Del nostro cuore? Non siamo forse noi sempre dibattuti fra la speranza, la coscienza di una promessa di bene che ci attende all’inizio di ogni giornata, la contemplazione della bellezza che ci spalanca il cuore e la percezione di una sconfitta, di una delusione cocenti, di un’aridità e di un’impossibile corrispondenza alle attese più pure, ai desideri più alti del nostro animo? Non è forse nostra la domanda: “Oh natura, oh natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?”. Non ci sorprendiamo mai a pensare all’uomo con queste parole: “Misterio eterno / dell’esser nostro”? E cosa c’è di più vero, di più convincente, di più umanamente “motivante” di queste domande, di questi pensieri? Di più attuale? Basterebbe tornare a guardare, a guardarci; tornare ad ascoltare, ad ascoltarci. Tornare a insegnare.