Il caso del Liceo Sannazaro di Napoli ha aperto, e non risolto, molti interrogativi non solo sulle logiche che sottendono la gestione delle scuole ma anche su quelle che adottano le famiglie nella scelta del percorso di studi e della scuola più adatta ai propri figli.
Apposite circolari sono intervenute a chiarire il principio di un’adeguata capienza rispetto alla domanda. Sono così, improvvisamente, apparsi un gran numero di studenti in esubero che molte istituzioni non hanno potuto accettare. Probabilmente il problema emerso al Liceo Sannazaro riguarda molte scuole. I licei restano i più ambiti, in particolare da certe classi sociali, mentre calano i professionali. La domanda si accumula negli stessi luoghi e il futuro non si distribuisce. I genitori vogliono che i figli, tutti diversi per attitudini e intelligenze, si preparino nel modo migliore alla vita. Tuttavia il fenomeno consistente di esuberi in determinati contesti indica che, malgrado la diversità dei ragazzi, le scelte delle famiglie sono spesso coincidenti. È forse il caso di interrogarsi sul perché.
Esistono licei in cui si sgomita per entrare, alcuni inseguono l’aumento di numeri come se a questo corrispondesse un aumento di prestigio, di sicuro consegue un aumento di fascia. In questi giorni sono stati pubblicati, in diverse Regioni, i criteri per definire le fasce di complessità delle scuole, il parametro rilevante resta il numero complessivo degli alunni iscritti.
La complessità di una scuola, pur essendo previsti molti indicatori, resta fondamentalmente ancorata ai numeri e non al progetto di scuola che si è messo in campo. È sicuramente necessario adottare un sistema oggettivo ma, solo per fare un esempio, avere più indirizzi da coordinare all’interno di una visione unitaria, con un approccio che traduca, attraverso lo scambio, la diversità in esperienza e trasformazione, non restituisce un punteggio neanche simile a quello che si ottiene avendo oltre 1500 iscritti. La complessità è di certo un concetto molto più articolato. Sono al più “complicati” sistemi apparentemente complessi quali un motore, una macchina o un’azienda molto grande con una struttura esclusivamente gerarchica, che non prevedono adattamenti ai cambiamenti sia interni che esterni.
Il dato numerico è una caratteristica tipica della complicazione, la complessità rappresenta invece l’ambiente ideale di una struttura innovativa. E per sua natura l’innovazione ha un rapporto molto stretto con il cambiamento. Un’istituzione che punta sull’innovazione governa la complessità con la semplificazione, con continui adattamenti che l’ambiente stesso sollecita. Dunque non si basa sui numeri e non sulla quantità. È necessario riconoscere questo principio, riconoscere dove risiede il lavoro vero di governo della complessità. Se si riesce a far convivere in un unico progetto culture e provenienze diverse, questo andrebbe riconosciuto come un valore forte della scuola e come lavoro duro, più duro che tenere insieme un grandissimo numero di “esseri seriali”. La scuola per prima dovrebbe riconoscere questo come principio classificatorio. Occorre fermarsi e chiedersi quando una scuola va considerata più complessa di un’altra.
Se a questo aggiungiamo che la variazione o la diversità non sempre vengono lette da scuole e famiglie come opportunità capiamo anche l’altro aspetto del problema, connesso all’omologazione classista, e per tipologia di utenza e per percorsi di studio, cui segue la concentrazione di domanda sovradimensionata in alcune scuole. Vado dove vanno tutti o vado dove vanno i miei simili, ma capire chi siano i propri simili è un viaggio che non passa per le sovrastrutture sociali.
Nel tentativo di acquistare crediti, alcuni rinomati licei hanno pubblicato negli ultimi anni il “Rapporto di autovalutazione” (Rav), utilizzando parametri come l’estrazione socio-economica delle famiglie, la nazionalità, la scarsa presenza di disabili. Grande eco ha avuto, tempo fa, la pubblicazione su Repubblica di estratti dei Rav di alcuni noti licei italiani.
L’effetto di utilizzare l’assenza di “studenti stranieri” o di “studenti con disabilità”, la classe sociale di provenienza e l’assenza di “svantaggiati” nell’accreditare il gradimento di una scuola, in tempi in cui si avvertono echi divisivi, evidenzia criticità significative per l’istruzione pubblica, soprattutto per quanto riguarda i principi costituzionali sanciti nell’art. 3 e nell’art. 34 sul diritto al sapere per tutti. Ma l’offerta si definisce spesso sulla domanda. E la domanda proviene dalle stesse famiglie.
Il problema è dunque culturale e va condiviso tra i diversi stakeholder. Molte lamentele sono seguite al rigetto delle domande d’iscrizione in alcune scuole ma forse molte domande erano, già in partenza, inadeguate ai profili degli studenti. L’offerta formativa sui territori è vasta, articolata e risponde alla domanda occupazionale del mercato non alle aspettative che a volte le famiglie hanno sui propri figli.
Aggiungiamo a questo ragionamento quello su alcune graduatorie delle migliori scuole italiane, di certo non prodotte dal Miur. Si valutano gli esiti, che in certi contesti sociali sono naturalmente più alti, ma quanto i rendimenti restituiscono del lavoro fatto, o non fatto, sulle attitudini degli studenti?
Sul sito del ministero dell’Istruzione “Scuola in chiaro” si analizzano invece altri dati importanti, tra cui il piano triennale dell’offerta formativa o lo staff di insegnanti. Una buona lettura da parte delle famiglie di un servizio offerto dal ministero, proprio per orientare una scelta così delicata, potrebbe aiutare più di una classifica.
(1 – continua)