Cos’è il valore aggiunto di una scuola? Se e in quale misura essa è stata capace di far sì che i propri alunni apprendessero più di quanto abbiano mediamente appreso alunni comparabili (vale a dire con le medesime caratteristiche all’ingresso) che hanno frequentato in uno stesso arco di tempo altre scuole. Ciò sarebbe osservabile “depurando” i dati dalle variabili più influenti, quali lo status economico-sociale, il genere, la nazionalità, la lingua parlata a casa ed i livelli di competenza di ingresso.
Il rapporto da poco rilasciato da Invalsi sul valore aggiunto delle scuole italiane nel 2018 ci dice che le scuole che non aggiungono né tolgono alcunché ai livelli attesi oscillano intorno al 70%, con punte negative al Sud inferiori al 60% in alcuni ordini di scuola.
Nella scuola primaria il numero di scuole con valore aggiunto positivo nel Sud raggiunge però o supera quello della stessa categoria di scuole del Nord e del Centro, ma vi risulta anche più alta la percentuale di scuole con valore aggiunto negativo: polarizzazione dunque.
Diversamente va nella scuola secondaria di primo grado: il numero di scuole con valore aggiunto positivo nel Nord e nel Centro supera decisamente quello delle analoghe scuole del Sud, dove inoltre cresce quello di scuole con valore aggiunto negativo. In italiano ad esempio si va dal 5,8% del Nord al 14,2% del Centro al 26.8% del Sud ed al 39,5% del Sud-Isole.
Nella scuola secondaria di secondo grado lo schema è lo stesso, aggravato dalla presenza nel Sud di una percentuale di scuole con valore aggiunto negativo maggiore di quella che si riscontra altrove, in particolare nell’istruzione tecnica (in matematica 19,2% al Sud e 33,8% al Sud-Isole) e professionale (in italiano 15,3% al Sud e 33,8% al Sud-Isole) .
Vengono da fare due osservazioni.
La prima è incoraggiante, anche se sarebbe interessante sapere quali sono le percentuali relative negli altri paesi, per come lo si può dedurre dalle ricerche ad oggi disponibili. In ogni caso i nostri valori di “non significativo valore aggiunto” non sono male: questo significa che la scuola il suo lavoro lo fa, di consegnare cioè agli allievi, ai loro diversi livelli, il sapere in quel momento a disposizione dell’umanità. Non è cosa da poco, nonostante tutti i discorsi sui poteri pervasivi dell’informatica. Certo, veniamo da un secolo in cui, per un delirio di onnipotenza, si è pensato che la scuola potesse, insieme e forse più delle rivoluzioni nel campo economico, o annullare le differenze sociali oppure rovesciarle. Anche se la realtà davanti agli occhi, insieme alle ricerche, ha molto ridimensionato queste aspettative, è sempre opportuno non sottovalutare e svalutare anche gli eventuali passi in avanti.
Anche il fatto che la percentuale di scuole che aiutano gli allievi a migliorare le loro potenziali prestazioni (valore aggiunto positivo) sia, in una buona parte del paese, maggiore di quella delle scuole che invece non lo fanno (valore aggiunto negativo) è incoraggiante.
Sulla scuola del Sud invece il discorso va facendosi monotonamente negativo; sarà meglio prenderne atto senza cercare o di censurare o di eufemizzare i dati. Oppure di cercare di mettere la sordina a chi ne è incolpevole registratore, come Invalsi. E’ chiaro che, in un tale contesto, chi, nonostante tutto, riesce a lavorare bene al Sud va valorizzato, ma sarebbe fuori luogo tornare alla teoria dell’Italia a macchia di leopardo cui approdò il monitoraggio dell’autonomia, la prima valutazione nazionale (di processo e qualitativa) dell’inizio degli anni 90.
Del resto, anche a livello delle analisi internazionali, si sta approdando alla conclusione che i sistemi scolastici riflettono anche significativamente il contesto culturale e la storia da cui escono. Le risorse che ci si mettono sono importanti ma non risolutive, dipende anche da come li si usa. L’interessante rapporto del febbraio 2019 sui dati emersi dalle autoanalisi della scuole (Rav) nel quadro del Servizio nazionale di valutazione ci dice ad esempio che ben il 35% delle scuole del Sud autodichiara di essere dotata di più di 2 laboratori ogni 100 studenti a fronte del 27% nazionale.
I dati della primaria sopra citati, che ci consegnano una buona percentuale di scuole del Sud con valore aggiunto positivo, ci impediscono poi fortunatamente di pensare ad una eziologia genetica. Del resto anche in valori assoluti lo iato fra Nord, Centro e Sud nasce decisamente a partire dalla secondaria inferiore, per approfondirsi drammaticamente nella superiore.
In particolare al Sud sembra persistere una polarizzazione culturale ancor prima che economica: i dati relativi alle differenze nelle classi, nelle scuole e fra le scuole, vanno nello stesso senso. Nel Sud la polarizzazione cognitiva e sociale è molto alta, sia fra i licei e gli altri pochi tipi di scuola con finalità professionali, sia fra le classi di una stesso istituto. Si tratta di una situazione molto diffusa fra i paesi di minore sviluppo sociale e culturale, in particolare nel Sudamerica e che nel nostro Sud è particolarmente visibile nelle grandi città come Napoli e Palermo, che ospitano al tempo stesso un’élite sofisticata da sempre molto presente nel ceto dirigente nazionale ed ora anche emigrata con buon successo a Londra e New York ed al tempo stesso un ceto popolare deprivato.
La classe privilegiata cerca ed incrementa le occasioni di sviluppo scolastico in chiave di segregazione, mentre le scuole rinunciano a un’effettiva scolarizzazione delle fasce meno privilegiate culturalmente e socialmente, spesso per un atteggiamento paternalistico e lassista (misurare il percorso e non gli esiti, etc.). Il contesto culturale è impregnato dalla distanza fra una cultura alta, tradizionalmente umanistica, ostile al concetto di lavoro (ahimè l’alternanza nei licei meridionali…), poco attiva, riservata alle élite e la cultura o meglio la subcultura della “plebe”. Per “migliorare” però è necessario avere la consapevolezza di essere in una situazione negativa e la convenienza a migliorarla, elementi ambedue ovviamente assenti nelle élite che conducono il gioco.
Non bisognerebbe anche sottovalutare indicatori più banali che escono sempre dall’importante rapporto Svn sopra citato e che attengono al clima disciplinare: per quanto riguarda gli ingressi in ritardo si va dai 40 su 100 in Abruzzo e Puglia ai 15 del Friuli; al primo anno delle superiori per quanto riguarda poi le sospensioni, sempre nello stesso anno scolare, al 4,2% a livello complessivo nazionale fa riscontro il 5,3% al Nord che ovviamente viene compensato da percentuali molto più basse al Sud. Si tratta peraltro di autodichiarazioni, che non sempre sono del tutto attendibili, non per dolo, ma per il peso burocratico delle registrazioni. Sarebbero interessanti dati complessivi longitudinali paragonabili ed attendibili su tutto il territorio nazionale sui vari aspetti disciplinari, soprattutto alle scuole superiori (assenze, ritardi, etc.).
Un gran lavoro, quello di Invalsi. Ma questo rapporto che tocca un tema così delicato potrebbe essere più divulgativo. Invalsi nell’ultimo periodo sta molto lavorando sul terreno della divulgazione; ne fa fede il documento diffuso in coincidenza con l’inizio delle prove in quinta superiore, il punto più delicato e critico dell’intero pacchetto. Che tra l’altro sembra avere una buona ed intelligente risposta da parte di alunni e scuole. Si comprende come sia necessario dare ampia ragione di tutti gli aspetti tecnici dei lavori fatti e che il linguaggio specialistico sia di necessità iniziatico. Ma la differenza fra società colte ed avanzate e no non sta solo nella loro ricchezza di cultura alta, ma anche, se non soprattutto, nel fatto che questa cultura alta venga nei modi dovuti spiegata al “popolo”. Altrimenti ricadiamo in quella polarizzazione che è la palla al piede del Sud Italia.