Kamal arriva dal Marocco; è in Italia da qualche anno, fa la strada per venire a scuola insieme a Ioan, che hai i nonni in Romania ed è nato in una grande città d’Italia. In classe trovano Giulia, Alessia, Alexander, Valentin, Abed, Shi (che si fa chiamare Carlo) Elisa, Youssef, Luca e tanti altri. Kamal (il nome è di fantasia, come quelli dei suoi compagni) ha imparato l’italiano, è un ragazzo sveglio, studia sui libri dei compagni e prova a ripetere la lezione quando è interrogato.



Non so cosa intendesse il ministro Bussetti nell’intervista rilasciata qualche giorno fa al quotidiano La Stampa dicendo che il suo primo pensiero è quello di tutelare i “nostri giovani affinché possano farsi una famiglia, avere dei figli, vivere con serenità il loro progetto di vita”. Il titolo dell’intervista stessa e le riprese che ne hanno fatto i media hanno – come al solito – dato adito a polemiche, più politiche che didattiche, e spostato ancora una volta la discussione dalle aule di scuola alle arene sociali.



Insegno italiano in classi plurilingue, come sono ormai tutte quelle delle scuole italiane, e la deformazione professionale da docente di lettere, o qualcosa di più profondo che si annida nell’animo di chi cerca di svolgere con coscienza il suo lavoro di insegnante, mi fa sentire tutti i giorni, quando varco la soglia dell’aula in cui devo entrare, la portata segreta e più grande dell’aggettivo possessivo usato dal ministro: sono quelli che ho davanti, i “nostri giovani”. È per loro il mio primo pensiero: per Kamal, per Elisa, per Youssef; per Ioan che un giorno mi ha confidato di aver nostalgia per i campi della sua terra; per Luca che vuole fare il meccanico per lavorare con soddisfazione nell’officina italianissima del padre; è per loro il mio primo pensiero, perché ciascuno di loro possa “vivere con serenità il suo progetto di vita”.



Non nascondo le difficoltà didattiche che questo comporta. Di fronte alla varietà di competenze linguistiche con cui mi trovo ad operare è come se la lettura e la comprensione dei testi, l’insegnamento della grammatica, l’acquisizione del lessico, la padronanza scritta e orale della lingua, gli ambiti insomma della mia disciplina fossero costantemente interessati da deflagrazioni interne che costringono a riprendere in mano i pezzi e a riguardarli, uno per uno, a rimetterli a posto in un processo di riflessione, maturazione e approssimazione continua verso strategie didattiche che permettano l’acquisizione da parte di tutti degli obiettivi della disciplina.

Al di là delle attività di prima alfabetizzazione per gli alunni neo-arrivati, questo è un fenomeno che interessa tutti gli ambiti didattici e coinvolge tutti i docenti di ogni scuola. Qualche anno fa insegnavo storia in una prima media: ricordo perfettamente lo spaesamento che ho provato quando, spiegando il monachesimo benedettino, mi sono resa conto che diversi studenti – per mancanza di lessico o distanza culturale – non avevano la benché minima idea di quello che stavo dicendo. È stato per me uno dei momenti più significativi della mia crescita professionale: ho dovuto io per prima riappropriarmi dei contenuti, ingegnarmi per trovare il modo di farli apprendere e comprendere a tutti gli studenti, non solo a quelli non italofoni.

È esperienza quotidiana, infatti, che gli strumenti per l’acquisizione della lingua per lo studio e la creazione di pratiche didattiche inclusive fanno bene a tutti: aiutano anche chi ha come lingua materna l’italiano a crescere nelle sue competenze lessicali e nella capacità di comprensione e produzione dei testi. Non bisogna dimenticare, infatti, che anche lo studente italofono del primo ciclo di istruzione è in una fase di pieno sviluppo linguistico, né deve dare scandalo il fatto che – in un semplice esercizio su una poesia di Valeri in cui avevo chiesto di cercare le definizioni dei vocaboli che non erano noti – anche un medio studente italofono abbia avuto bisogno di cercare sul dizionario il termine “trapunta” per districare la metafora presente nel testo per descrivere la dolcezza del rifiorire della primavera (“tappeti di varia verdura / distesi in simmetria, tende pezzate, / molli trapunte scure fiocchettate / di verze gialle e cavolfiori blu”, D. Valeri, Aprile). Non deve dare scandalo il fatto di dover ricucire strappi linguistici anche nella “lingua del sì”, e di dover reinsegnare filo per filo l’arte del tessere con le parole (lo insegnava Silone in Fontamara).

È una rivoluzione didattica, quella che viene chiesta oggi alla scuola italiana, perché più nessun genitore si senta rispondere, alla domanda sui propri figli “italiani”, “che si arrangino”.

Servono risorse, formazione, ricerca, tempi ampi e distesi. Servono luoghi di incontro, tavoli di lavoro, accordi e protocolli, ma soprattutto creatività, gusto, inventiva; servono esempi virtuosi a cui guardare: luoghi come Portofranco o la scuola Penny Wirton, dove l’inclusione è costruita sul bisogno didattico e formativo dei giovani che vi si rivolgono in cerca d’aiuto per costruire una strada per il proprio futuro; ma serve, innanzitutto, quella molla segreta del cuore di un insegnante che non si arrende, che cerca, tenta, prova e riprova, che si mette in gioco perché tutti, ma proprio tutti, possano trovare in loro, fuori di loro e per loro parole che aprono mondi e aiutano a dire sé e il proprio mondo nel mondo.