Di tutte le immagini su quanto accaduto a Parigi, durante e dopo l’incendio che ha colpito la cattedrale di Notre Dame, ce n’è una che proprio non riesco a togliermi dalla testa e che domina nel solito vortice di commenti e considerazioni che seguono a eventi come questi. E’ quella di uomini e donne che, in ginocchio davanti alla cattedrale in fiamme, cantano l’Ave Maria, con tono visibilmente ferito, ma altrettanto carico di dignità e speranza. In ginocchio, con il volto rivolto verso la statua di Maria, Notre Dame, che nonostante le fiamme che la circondano sta ancora lì, imponente, a vegliare sul suo popolo. Non sono pochi i video e le immagini che documentano tutto ciò.



Non so se quanto accaduto possa essere interpretato come un segno dei tempi o, come molti dicono, un monito o addirittura una punizione divina, lasciando spazio all’immagine di un Dio vendicativo che non mi sento di condividere. Non voglio partecipare alla giostra delle interpretazioni. Desidero piuttosto, innanzitutto per me stesso, fissare ciò che questo fatto mi ha svelato con un’evidenza disarmante.



Per prima cosa, l’immagine descritta sopra mi ha fatto accorgere che, mentre c’era una cattedrale le cui pietre erano avvolte dalle fiamme, c’era un’altra cattedrale, fatta di pietre vive, che, sebbene ugualmente colpita, splendeva come non mai. Un popolo che, intonando quelle preghiere, si rendeva partecipe del dolore di Notre Dame e allo stesso tempo a Lei si rivolgeva, riponendo in Essa tutta la sua speranza e certezza. Questo è il primo fatto che è emerso: la certezza e la speranza di un popolo che nemmeno il crollo di una cattedrale può abbattere.

Un secondo aspetto inequivocabile è stato la profonda unità che si è svelata, sottolineata dal silenzio impotente con cui il mondo intero assisteva a quanto stava accadendo. Come se la ferita che dilaniava la cattedrale fosse percepita da ciascuno di noi. Nonostante le diverse voci che si sono subito levate nel tentativo di riempire una voragine palpabile nel cuore di tante persone, per un istante ci si è fermati, ci si è guardati intorno, e ci si è sentiti in qualche modo uniti, come se da quella cattedrale partisse un filo che ci legasse tutti. Possiamo dire quello che vogliamo, rivendicare ciascuno i propri interessi, alimentare litigi e divisioni, ma c’è ancora qualcosa in cui, volenti o nolenti, ci scopriamo ancora uniti. Si può dare a questo qualcosa il nome che si vuole, sta di fatto che c’è.



Terzo, non appena si è constatato che la struttura portante era salva, si è subito iniziato a parlare di ricostruzione. Stando alle prime notizie, già tante persone, non solo francesi, si sono mobilitate a riguardo. Non so se è una considerazione forzata e inopportuna, ma questo fatto mi ha fatto pensare che in fondo l’Europa è nata per lo stesso motivo, per lo stesso ideale di ricostruire una bellezza distrutta e considerata imprescindibile per la vita di tutti. Chissà che, a poco più di un mese dalle elezioni europee, in cui anche oggi come allora siamo chiamati a ricostruire una bellezza ferita, questo fatto non possa insegnarci qualcosa.

Alcuni credono che l’incendio di Notre Dame sia da interpretare come il segno della fine della civiltà e mentalità occidentali. I fatti dicono altro. Questo dramma, paradossalmente, segna davvero un nuovo inizio, perché ha fatto emergere tutto quello che di bene e di buono possiamo fare, se non smettiamo di guardare, come quei fedeli in ginocchio, alla Sola che può sorreggere la speranza del suo popolo e farci ripartire, Notre Dame.