Il mio amico, il professor Giuseppe, per quanto anziano e ormai piuttosto scettico nei confronti di ciò che oggi viene proposto dalle circolari ministeriali o da altre amene agenzie circa corsi di formazione o indicazioni per lo sviluppo di curricula e programmazioni, sa bene che talvolta è possibile che possano non essere d’intralcio all’attività didattica. Dice proprio così: possono non essere d’intralcio! Dice che, senza essere geniali, queste proposte possono essere riempite con contenuti significativi e adeguati ai suoi giovani studenti delle medie.



Così mi ha raccontato che, a fronte del pressante invito da parte della presidenza, sulla scorta di indicazioni di chissà quale circolare, ha pensato con i suoi colleghi una programmazione interdisciplinare, o multidisciplinare che mettesse al centro la figura del giovane di seconda media, integrando la programmazione sua e quella delle altre materie intorno al tema così descritto: io e l’altro, la costruzione dell’identità personale.



Beninteso: lui dice che è una roba che si faceva nel 1980, che spacciano per nuova ma che piaceva tanto in quegli anni e a cui adesso hanno aggiunto una coda di sciocchezze valutative circa le competenze, con griglie e grigliettine insulse e dettagliate, con termini come valutazione fattoriale, o giù di lì, che ci vogliono mesi per costruirle e per dire che il giovanotto o la signorina interagiscono, comprendono ecc. ecc: bastava guardarli, dice lui.

Comunque Giuseppe ha tirato fuori con i suoi colleghi un bel percorso con letture condivise, realizzazione di un diario personale, presentazioni in lingua straniera, tavole di arte sul ritratto e sull’autoritratto, tavole di tecnica sull’abitazione e i modi di abitare, tutte attività incentrate sulla personcina che cresce, appunto. E a cui si è aggiunta anche la partecipazione ad uno spettacolo teatrale di un’intensità e di una originalità non comuni. Lisa, lo spettacolo in questione, che è stato anche recensito su queste pagine, è un dialogo che la Gioconda vive sul palco in assenza di Leonardo, che però, nello svolgersi del lavoro, viene lì convocato, disegnato e scoperto nella sua contraddittoria personalità.



Mica roba da poco, dico io. Giuseppe mi guarda con un sopracciglio inarcato che nemmeno Ancelotti riesce più a fare. Sarai mica come i prof che c’erano con noi a teatro, per caso, mi domanda. Perché, com’erano, domando a mia volta. Giuseppe ha un po’ di anni d’insegnamento sulle spalle, e un bel po’ di incarichi nelle scuole del circondario, conosce un po’ tutti i professori della zona. Così ha chiesto loro cosa pensassero dello spettacolo. In realtà era già un po’ contrariato, perché tra i 400 studenti presenti allo spettacolo, tutti davvero attenti e silenziosi, qualcuno, pochi, pochi davvero, ogni tanto apriva il cellulare. E la luce infastidiva Giuseppe e lo spettacolo. E i prof lasciavano fare: è stato lui a chiedere di spegnerli. Non erano suoi, quegli alunni, ma si sentiva la responsabilità intera di tutto quel gesto.

Quindi, già non propriamente ben disposto – e allora evita, no? gli dico – ha chiesto qualche riflessione sullo spettacolo alle sue giovani colleghe. Una ha risposto che era stata molto impressionata dalla forza interpretativa dell’attrice, dal testo importante e che però il tema non era facile, che richiedeva molta attenzione. E quindi? Quindi i ragazzi forse non riuscivano a seguire, perché non sono abituati. La contrarietà di Giuseppe, dopo i cellulari, intanto saliva: quando loro fanno lezione i bimbi si possono prendere la libertà di non essere attenti? Non possiamo chiedere loro di essere attenti, di prendersi questo impegno piccolo, piccolo?

Ma non era ancora finita. Un’altra insegnante, a cui aveva fatto la stessa domanda, sbrigativa e risoluta ha risposto: bellissimo. Ma io non sono una prof di italiano o letteratura, comunque devo correre, mi porto i ragazzi in fretta in classe perché devono fare la verifica. Non so di che verifica si trattasse, so solo che Giuseppe in quel preciso istante, ha trattenuto a stento qualche parola che gli saliva dal cuore. Lui è tornato a scuola, ha ripreso con gli alunni quello che avevano visto, ha messo giù con loro una traccia per concludere quell’esperienza così unica come può essere un teatro, con un testo di riflessioni e commenti. Come si faceva una volta. Gli alunni delle sue colleghe, forse facevano una verifica di inglese o chissà cos’altro. A che cosa servono questi corsi che facciamo, a che cosa servono tutte le formazioni, se poi ti ritrovi insegnanti che non sono in grado neanche di sentirsi responsabili di quello che accade? Se ci sono insegnanti che, non solo non sono maestri che possano indicare ai loro alunni dove e come guardare, ma addirittura distolgono loro per primi lo sguardo dalla bellezza che gli si presenta davanti? A questo servono programmazioni, misurazioni, tabelle, slide e tutto il resto della cianfrusaglia digitale? A spostare lo sguardo sul proprio microcosmo, sulla propria materia, ad essere ormai solo autoreferenti dimenticandosi dell’orizzonte che si spalanca davanti a noi e ai ragazzi ogni giorno?

Peggio dei loro alunni, ha pensato Giuseppe. E forse la luce che proveniva dalle poltrone dietro di lui era proprio quella del cellulare di una professoressa. Forse ha sbagliato a rimproverare i ragazzi, mi confessa.

Giuseppe mi dice queste cose mica con rabbia soltanto, nemmeno con dentro soltanto una profonda tristezza. Mi ricorda che qualche anno fa un documento ministeriale si apriva con l’auspicio, addirittura il proclama di una scuola in cui si prospettava la nascita un nuovo umanesimo. Sembra una presa in giro, dice Giuseppe, citando un’elegia di Rilke, perché tutto invece cospira a tacere di noi. Ma sembra che lui ci creda ancora che la scuola può davvero fare il suo mestiere. Bisognerà che qualcuno torni a capire da dove si può ricominciare. Per non pensare che l’inarrestabile fiume della noncuranza e dell’insensatezza, travestito da modernariato digitale, travolga tutto. E tutti.

Intanto Giuseppe mi racconta che sul piazzale dove la sua classe aspettava i pullman per il rientro a scuola, ha visto dai finestrini qualche ragazza e ragazzo di quelli che aveva rimproverato mandargli dei baci. Ironici e irriverenti, probabilmente. O forse, chissà, davvero sentiti: per una volta, qualcuno ha detto loro qualcosa. Non soltanto che bisogna rispettare le regole, ma che è più bello sollevare il cuore e lo sguardo. Che diritto aveva di farlo? Non era mica il loro professore. E allora perché? Vanno via sul pullman con una domanda, la stessa che Lisa e Leonardo gli aveva acceso in un’ora dal palco, dalla vita finta, e per questo reale, che stava lì a interrogare quella vera che tornava alla scuola.