Nomina sunt consequentia rerum… Ancora scuola paritaria e scuola statale, e per di più con un titolo in latino? Il lettore che si lasci sfuggire un’espressione di disappunto di fronte al mio ennesimo articolo sul tema è largamente giustificato: questa volta però vorrei metterlo a parte (il lettore medesimo) di una mia radicale incomprensione legata al corretto uso delle parole. Fino ad oggi ho sempre pensato di avere una discreta cultura, conseguita in tredici anni di scuola, quattro anni di università, e due anni di specializzazione in sociologia, in tutto diciannove anni passati dietro i banchi, in senso sia stretto che figurato, visto che alle elementari avevo i banchi di legno con la predella e il calamaio. Sono poi passata dall’altra parte della cattedra, e ci sono rimasta fino alla pensione.



Bene, nonostante tutti questi anni in formazione, subita o impartita, non capisco, non riesco a capire, non mi spiego come sia ancora possibile che una larga fascia di popolazione altamente scolarizzata non riesca a distinguere fra “pubblico” e “statale”. La legge 62/2000, che è tra le più citate e meno capite nella sterminata giurisprudenza italiana (si stima che tra leggi, decreti e circolari si sia ampiamente superata la soglia di centomila, ma contarli è come contare le stelle: porta male, e vengono i porri sulle mani) recita all’articolo 1 “Il sistema nazionale di istruzione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 33, secondo comma, della Costituzione, è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali”. L’articolo 33, tanto per un ripasso, non si limita al famoso “senza oneri per lo stato”, ma afferma che “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento… La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”. Questa seconda parte, chissà come mai, è molto meno citata.



Ma torniamo alla legge 62, dato che la Costituzione non è tanto di moda, per lo meno non tutta. Nella legge, la parola “pubblico” compare solo all’articolo 3, dove si afferma che “Le scuole paritarie, svolgendo un servizio pubblico (corsivo mio), accolgono chiunque, accettandone il progetto educativo, richieda di iscriversi”. Orrore e raccapriccio! Le scuole paritarie svolgono un servizio pubblico! Accolgono chiunque chieda di iscriversi, purché accetti il progetto educativo! Vogliamo mica arrivare a dire che le scuole cattoliche iscrivono studenti musulmani! Ebbene sì: non moltissimi, naturalmente, ma alcune famiglie musulmane preferiscono una scuola fondata su valori religiosi, anche se diversi dai loro, a una scuola “neutra” che neutra non può essere, perché qualsiasi educazione fa riferimento ad un valore fondante e ad una concezione della vita, qual è anche l’agnosticismo, e abbastanza spesso questa scuola statale neutra tende ad essere non a-religiosa ma anti-religiosa.



Sono passati quasi vent’anni, ma ancora recentemente ho letto il testo di un docente, pur qualificato, che identifica con grande naturalezza scuola pubblica e scuola statale, errore diffuso quasi solo in Italia e in pochi paesi non particolarmente democratici dove il problema non si pone, perché esiste solo la scuola statale. Nel testo si citano le tesi di Condorcet (le Cinque memorie sull’istruzione pubblica del 1791, ripubblicate da Manifesto libri nel 2002 con il titolo non casuale Elogio dell’istruzione pubblica) per assegnare solo alla scuola statale il compito di costruire la cittadinanza e tutelare il bene comune, negando implicitamente la funzione pubblica della scuola paritaria. E’ legittimo considerare sbagliato che il principio di sussidiarietà venga applicato anche alle scuole non statali, ma mi permetto sommessamente di ricordare che Condorcet fu un convinto difensore dei “diritti naturali dei genitori” nell’educazione dei figli, in quanto i padri devono avere la possibilità “di guidare essi stessi le loro famiglie”.

Questa difesa della famiglia come elemento di tutela dell’individuo contro l’ingerenza dello stato nella vita quotidiana, in un momento in cui Saint-Just nel marzo 1794 affermava che l’educazione aveva il compito di “forgiare l’uomo nuovo della rivoluzione, il giacobino, il rivoluzionario virtuoso e inflessibile, dotato di coscienza politica”, non era particolarmente gradita al potere: alla fine di quello stesso mese, Condorcet moriva, “suicidato” in carcere.

Nomina sunt consequentia rerum: e la res in questione, la cui mancanza legittima un uso scorretto dei termini, è una reale possibilità di scelta che non penalizzi le famiglie. Gran parte della letteratura sulla scelta scolastica mostra che le scuole più attrattive per i genitori sono quelle realmente autonome, che hanno una caratterizzazione e obiettivi chiari e dichiarati, e operano in base ad una specifica cultura, caratterizzata dai valori sottostanti alle azioni. La suddivisione fra pubblico e privato è oggi speciosa, in quanto si dovrebbe più correttamente distinguere fra buone e cattive scuole, e fra scuola autonome e scuole per cui l’autonomia è solo una scatola vuota: e a questo punto, sarà forse possibile indirizzare i finanziamenti a quelle scuole che, indipendentemente dal loro stato giuridico, sono in grado di rispondere ai bisogni educativi dei loro ragazzi. Oltretutto, riprendendo il “senza oneri” per lo stato, un finanziamento anche parziale alle famiglie che mandano i figli alla scuola paritaria (e che pagano due volte finanziando con le tasse il sistema statale che non utilizzano) comporterebbe un risparmio, perché il costo pro capite della scuola paritaria è inferiore a quello dello stato.

Uno studio analitico non è mai stato fatto, anche per l’opacità dei dati disponibili, e il confronto andrebbe fatto per livello, indirizzo e area geografica, ma confrontando i pochi dati disponibili con i costi massimi previsti per le rette delle scuole paritarie, la differenza si aggira intorno al 30 per cento, soldi che potrebbero essere spesi per migliorare la qualità dell’offerta, e anche per differenziare gli stipendi dei docenti.

Ma questo richiederebbe, fondamentalmente, un ripensamento del (quasi) mercato dei docenti stessi, e una permeabilità dei due sistemi, e questo non dico che non verrà mai accettato dalle rappresentanze sindacali, ma certo al momento pare un macigno non rimovibile sulla strada di una reale integrazione. Non ho l’impressione che la qualità della formazione sia al primo posto negli interessi dell’attuale governo (e nemmeno al secondo o al terzo…), ma forse un pensierino al fatto che la conoscenza è un fattore cruciale non dico per lo sviluppo, ma quantomeno per non indietreggiare, prima o poi andrebbe fatto.