Questa è la seconda puntata della trilogia “l’ignoranza del diritto genera mostri”.

La prima puntata, per chi avesse voglia di rileggerla, riguardava la vendita di un’auto usata con un impossibile pagamento in contanti e nell’ignoranza di un oggetto misterioso chiamato assegno circolare.

La seconda puntata riguarda il livello di conoscenze giuridiche di base non di un poco acculturato operaio specializzato ma di un funzionario direttore di un ufficio postale di una provincia campana.



Come nella storia precedente, anche stavolta la vicenda è assolutamente reale e vissuta in prima persona, ma con nomi e riferimenti omessi o cambiati perché lo scopo dimostrare l’assunto e non prendere in giro o fare ironia sulle persone.

L’assunto è questo: fra le competenze di base dello studente italiano ci deve essere la conoscenza della Costituzione e dei principi di base del diritto anche solo in funzione puramente strumentale, ossia di strumento per la conoscenza della realtà.



Oggi non è così nonostante i tentativi di cambiare la situazione.

Mio figlio ha bisogno di uno strumento (una carta prepagata con Iban) che si ottiene presso qualsiasi ufficio postale con una perdita di tempo non superiore ai dieci-quindici minuti.

Quando lui la chiede sono in ufficio anch’io per altre questioni. Stiamo facendo, perciò, due file diverse. Io termino presto mentre lui sta ancora davanti allo sportello con l’impiegato che digita e digita senza emettere la sentenza.

Che arriva dopo un po’: “Non può avere la carta”. E perché? “È inabilitato”.

Quando ci si rapporta con la realtà quotidiana di pratiche e richieste varie, conoscere le basi del diritto è controproducente perché si scatena un meccanismo di complicazioni legate proprio al fatto di sapere.



Nel linguaggio del diritto un inabilitato è uno che ha una limitata operatività nelle questioni comuni (comprare una casa o un’auto ad esempio oppure aprire un conto) perché o è malato di mente lieve o è alcolista o tossicodipendente o sordomuto o cieco dalla nascita o, infine, è spendaccione, il termine esatto è prodigale.

Queste nozioni le studiano i miei ormai rari studenti al primo anno delle superiori.

Un po’ mio figlio penso di conoscerlo, non dà segni di squilibrio manco lieve, non fuma nemmeno le sigarette normali e quanto alla prodigalità è generoso ma la “tendenza a spendere o a donare con larghezza eccessiva e senza riflessione”  non gli appartiene. È loquace quanto basta ed ha una vista d’aquila quindi semplicemente non può essere stato dichiarato “inabilitato”.

Ma l’impiegato insiste sull’inabilitazione e solo dopo le mie insistenze spiega che nel linguaggio burocratico molto semplicemente significa altro e cioè che non gli può essere rilasciata la carta.

Deve essere oggetto misterioso pure per lui la faccenda perché continua a smanettare, premuroso e professionale, dietro le mie insistenze per venire a capo del problema.

“Ma non è che l’altra carta (mio figlio ne ha un’altra senza Iban) è in rosso?” chiede con una certa ritrosia perché mi conosce personalmente come cliente e immagina che, se fosse in rosso, da padre premuroso e legalitario, avrei già provveduto a farla virare in verde.

“Ma no, faccio regolarmente gli estratti conto ed il saldo” risponde mio figlio ormai un po’ smarrito per quello che i suoi amici coetanei ventiseienni hanno risolto in un attimo e che per lui rischia di diventare un buco nero misterioso.

Io insisto con l’impiegato dicendo che il misterioso blocco, l’inabilitazione, da qualche parte della procedura informatica deve avere una chiave di spiegazione.

Nella mente cominciano ad insinuarsi pensieri pericolosi: le truffe informatiche, il phishing, il furto di identità, mio figlio nel bollettino dei protestati. No, è tutto molto più banale: l’ignoranza del diritto ha generato un secondo mostro dopo Arcangelo, il primo protagonista della trilogia.

Il secondo mostro non lo chiamerò con il suo vero nome (perché lo conosco e ne ricordo perfettamente l’identità) ma Cecchino.

È il direttore di un minuscolo ufficio postale di una provincia campana dove anni fa tutto è nato per educare i nostri due figli al risparmio.

Insistendo insistendo e dopo consultazioni con il direttore, finalmente l’arcano è svelato: tutto nasce da un libretto di risparmio aperto quando i nostri figli erano ancora minorenni e convertito dall’impiegato Cecchino che non ha studiato, evidentemente, le basi del diritto.

E qual è il problema visto che dal diciottesimo compleanno ormai sono passati anni? Dal buio degli archivi informatici spunta la sentenza: noi siamo stati inseriti, da Cecchino, negli archivi non come i genitori ma come i “tutori” dei nostri figli.

E se uno è sotto tutela le carte di credito o di debito non le può chiedere e avere direttamente.

Ai miei studenti spiego sempre: “Mi raccomando non venite alle interrogazioni a dirmi che i vostri genitori, che sono i vostri rappresentanti legali, sono i vostri tutori perché è un errore logico grave”.

Perché studiare il diritto, vorrei spiegarlo ai teorici della “educazione alla legalità senza leggi”, serve anche a questo: a ragionare. I tutori vengono nominati quando i genitori sono morti entrambi o sono entrambi stati privati della potestà genitoriale. Insomma un “genitore tutore” è decisamente un ossimoro.

Come sarà mai venuto in mente all’impiegato dell’epoca di schedarci come tutori anziché come genitori? Cerchiamo di venire a capo dell’impresa: per inserirci come “tutori” dei nostri figli da qualche parte ci dovrebbe essere un foglio (giuridicamente impossibile ad essere generato) che attesti la situazione di incapacità assoluta del minore, la morte o decadenza dalla potestà dei genitori e la conseguente nomina di un tutore.

Ovviamente non c’è da nessuna parte nessun documento e quindi il “genitore tutore” non può essere solo il frutto del tasto sbagliato premuto sui pc antidiluviani dell’epoca.

In assenza di questo documento, una persona con le conoscenze acquisite in prima superiore se avesse studiato il diritto, un genitore tutore di suo figlio non avrebbe manco potuto immaginarlo.

Si insinua il dubbio: e se il tizio dell’epoca, Cecchino, avesse pensato che le due espressioni (genitore e tutore) sono equivalenti per cui era indifferente, secondo lui, usare l’una o l’altra?

Ma anche qui la domanda nasce spontanea: gli avranno spiegato che se fossero sinonimi, non per il diritto ma per l’italiano, nella legenda della schermata di inserimento in archivio ce ne sarebbe stato uno solo di termine?

Se puoi scegliere tra “genitore” e “tutore” devi sapere cosa significano. Se non lo sai, combini pasticci che si spera siano facilmente riparabili senza perdere ore e giorni di tempo come temo accadrà.

Ministro Gelmini, ha presente che responsabilità si è assunta quasi dieci anni fa quando decise che lo studio del diritto non serviva più agli studenti italiani? Come finisce? Ve lo scriverò nella terza puntata della trilogia.

Basta attendere…