1. Parlare di autonomia scolastica oggi sembrerebbe — dice la freddura — come vendere frigoriferi al polo nord. Ma la rivista per presidi Dirigere scuole ci ha provato con il suo ultimo quaderno “L’autonomia incompiuta: bilanci e suggestioni per il futuro della scuola”. E’ un po’ la speranza di una ventata di riflessione che attraversi il mondo dell’istruzione, dove l’abnegazione quotidiana di molti docenti e presidi viene quotidianamente mortificata dalle forze legate al centralismo, alla conservazione, alla confusione organizzativa ed oggi alla mania di abrogare.



Un centralismo che permane vivo e vegeto, nonostante le recenti proposte di autonomia regionale di alcune Regioni settentrionali. In realtà, se si leggono i testi, si vede che si tratta solo e ancora di decentramento di alcune funzioni dello Stato e non di autonomia delle scuole, come d’altronde fu già la legge 54/1997, la cosiddetta Bassanini.



Come ricorda Luigi Berlinguer, padre del tentativo dell’autonomia scolastica, quei testi rappresentano “certamente un rischio”. Come mai?  “Il principio costituzionale dell’autonomia delle istituzioni scolastiche giunse, nel 2001, al culmine di un lungo percorso, che aveva visto estendersi un protagonismo scolastico particolarmente dinamico, soprattutto nella secondaria superiore”. Ma questo percorso è stato del tutto bloccato dall’esito negativo del referendum popolare del dicembre 2016 sulla riforma del Titolo V”.  Alla fine della scorsa legislatura ed a seguito del referendum in Lombardia e Veneto, è stato perfezionato un accordo preliminare per una specie di autonomia variabile o differenziata che coinvolgerebbe anche il campo della scuola. Questo tipo di percorso comporta il proliferare degli apparati pubblici e il frazionamento delle competenze, vizi comuni del centralismo e del regionalismo.  Alla fine l’autonomia scolastica farebbe la fine del classico “vaso di coccio tra vasi di piombo” (gli apparati burocratici centrali e in più quelli periferici). Come d’altronde dimostra la vicenda dell’Istruzione e formazione professionale (IeFP), le esigenze degli apparati regionali finiscono col “prevalere sulle funzioni da svolgere”. 



In questa incertezza di prospettive diventa indispensabile il tentativo di guardare oltre i confini, per comprendere come sia possibile che l’autonomia scolastica venga riconosciuta come la vera riforma di un sistema che voglia rispondere alle sfide formative del nostro tempo.

In questo aiuta anche la sintesi di una recentissima ricerca Ocse di M.H. Doumet che guarda proprio alla ricaduta pratica nella scuola europea dell’istanza autonomista.

Non è un caso che i Paesi che hanno fatto registrare i migliori risultati nelle indagini Ocse Pisa sono quelli che hanno un sistema educativo decentrato, policentrico e basato sull’autonomia. Certo, non si tratta di “importare” modelli tali e quali, ma di assumerne i fattori decisivi: un’autonomia responsabile,  che vede protagonisti i “professionisti” della scuola, in stretta correlazione con le forze del proprio territorio alle quali questa è chiamata a rispondere.  Perché senza dialogo e confronto con le comunità locali e le forze sociali l’autonomia scolastica resterebbe un alibi ad una gestione burocratica della scuola, chiusa nella propria autoreferenzialità.

Non è inutile richiamare che un’autonomia funzionante deve essere correlata ad un sistema di valutazione, autonomo e indipendente dal Miur, capace di misurare i risultati delle performance del personale (docenti e dirigenti scolastici) e degli apprendimenti degli studenti.

Va riconosciuto, tra l’altro, che a questo processo complessivo di valutazione sono diventate più sensibili da noi anche le famiglie, che negli ultimi anni hanno mostrato segni di una maggiore attenzione ai fattori di qualità formativa sulla quale i “professionisti” della scuola possono, se vogliono, avere un ruolo decisivo. Si pensi solo al successo che, al d là di riflessioni tecniche dello strumento, sta avendo in Italia la classificazione della Fondazione Agnelli delle scuole superiori in occasione della scelta dopo la terza media.

2. La vera sfida (e quindi l’utilità, alla fine) dell’autonomia scolastica e della sua efficacia si gioca sul campo della didattica, dell’apprendimento, dell’ambiente formativo, che costituiscono il cuore dell’autonomia, in quanto vi si affronta la centralità dell’imparare. “Non è concepibile infatti una politica scolastica che non stimoli la creatività del discente; non è sufficiente per insegnare limitarsi a ‘trasferire conoscenze’, per altro assolutamente necessarie. (…) E tutto questo non può essere realizzato attraverso la pura trasmissione, il solo trasferire conoscenze, ne tantomeno attraverso metodi di omogeneizzazione delle stesse per tutti gli studenti, per i diversi studenti, perché l’apprendimento è una conquista, ha sempre in sé un che di creativo” (Berlinguer). E’ questo il grande compito dei docenti.

L’Unità italiana di Eurydice, Sviluppo dell’autonomia scolastica, nel proprio Bollettino internazionale “Livelli di responsabilità e autonomia delle scuole in Europa” (2009), proprio nel presentare già allora il quadro politico e storico delle riforme a livello europeo sull’autonomia scolastica, si soffermava sull’autonomia didattica degli insegnanti, documentando come proprio le riforme legate all’autonomia scolastica rinnovano in particolare le modalità dell’attività didattica, ampliando tra l’altro l’intervento degli insegnanti nei curricoli della loro scuola. Nella quasi totalità dei paesi europei, i programmi scolastici interamente centralizzati sono di fatto scomparsi per lasciare il posto a una definizione dei contenuti di istruzione a più livelli, che assegna ormai un posto significativo alla singola scuola e agli insegnanti.

In piccola parte è avvenuto anche da noi con le riforme del 2003 e del 2008.  Ma con queste siamo rimasti proprio agli albori del cammino, che invece vede ovunque il passaggio dalla standardizzazione didattica (modello prevalente dal XIX secolo) ad insegnamenti più individualizzati la cui concezione rinnova ed ampia l’attività dell’insegnante, che deve sempre più misurarsi con il lavoro d’équipe.

L’autonomia quindi non si risolverà in una delle tante riforme organizzative degli ultimi decenni senza conseguire apprezzabili cambiamenti dei risultati formativi delle scuole di ogni ordine e grado, solo se sarà rivolta adeguata attenzione alle problematiche didattiche.

La scuola dell’autonomia riuscirà a raggiungere il suo fondamentale obiettivo a condizione che migliori l’impostazione dell’azione educativa e didattica, perché è dalla didattica che dipende la qualità e la produttività della scuola dell’autonomia.

Evidentemente, la scuola cambia se cambiano i processi apprenditivi e formativi che gli alunni realizzano “dietro le porte delle aule” e perciò l’attenzione va rivolta prioritariamente a quanto avviene “dentro le aule”:

– alle modalità dell’apprendimento delle varie discipline che si sappiano misurare nel confronto col mondo reale fuori dalla scuola. Per questo sono deleterie le attuali scelte in materia di alternanza scuola-lavoro;

– alla possibilità di un’organizzazione didattica flessibile, che sappia superare durante l’anno l’immobilità della classe;

– alla flessibilità dei tempi per le singole attività nel corso dell’anno scolastico;

– alla capacità di alternare la lezione frontale con la possibilità per  ciascun alunno  di giocare il personale impegno di ricerca e  riscoperta;

  all’incremento progressivo negli anni di un curricolo personalizzato rispetto ai singoli alunni, che veda questi anche protagonisti nelle scelte;

– alla diffusione di una valutazione didattica fatta sempre più per educare che per selezionare,

– all’integrazione delle indispensabili conoscenze, con la formazione delle capacità attinenti alle diverse dimensioni della personalità (motorie, operative, di lavoro,  sociali, affettive, emotive, espressive, comunicative, estetiche) e degli atteggiamenti (interessi, motivazioni, disponibilità, propensioni).

Sono solo pochi esempi di attività e metodi che, pur già sperimentati in certe scuole, assunti in quadro di autonomia a sistema, permetterebbero in forma nuova la ripresa della migliore nostra tradizione scolastica.

3. Resta il fatto che il problema della governance della scuola in Italia ha raggiunto livelli di crisi allarmanti, pur negli elementi basilari del normale funzionamento, per i quali siamo all’elementare urgenza di ripristinare la pura legalità. Basti pensare solo al fatto che a settembre del prossimo anno mancherà alle scuole statali quasi il 40 per cento dei dirigenti scolastici titolari. Un buco di efficacia mai avvenuto in 160 anni di scuola statale.

Tuttavia, e più a fondo, il grave stato di impasse istituzionale nasce dalla mancata  risposta ad una domanda cruciale per il rilancio dell’autonomia scolastica, domanda che Disal, già nel proprio convegno del 2004, aveva così espressa: a chi appartiene la scuola? Non si può delineare un quadro istituzionale chiaro se non si decide previamente se la scuola italiana debba restare in capo ad uno Stato centrale efficiente ed organizzato (ammesso che sia oggi possibile), o debba solo decentrarsi alle Regioni, oppure se debba appartenere alle comunità locali ed ai soggetti sociali che le costituiscono. Occorre scegliere, consapevoli che la scelta per una visione complessiva porta intrinsecamente con sé anche la scelta sulla problematica della scuola non statale.

Le ricerche e le vicende internazionali ci dicono che qualcosa cambierà di sicuro nei prossimi decenni: i movimenti complessivi vanno verso scuole sempre più autonome, con il dovere di rendere conto di quel che fanno,  con programmi scolastici sempre meno uniformi fra le scuole di un paese, con una valutazione delle scuole, degli insegnanti, dei dirigenti che diventa la regola con tutte le conseguenze del caso.

Da noi urge uno “scatto” culturale e di visione complessiva da parte della politica e dell’amministrazione, per un quadro normativo nuovo, fatto di quattro elementi indispensabili per una reale autonomia scolastica (due dei quali, tra l’altro, appartengono già al funzionamento delle scuole pubbliche paritarie):  organi di governo locali dell’istituzione scolastica; la  possibilità di assumere liberamente i docenti sulla base delle competenze e non delle carte; una riforma delle finanze scolastiche nella direzione del costo standard per tutti (come per università e formazione professionale);  le possibilità di gestire con molta flessibilità il curricolo scolastico.

Riprendere sul serio un dibattito sull’autonomia scolastica è compito serio e urgente, riconoscendo alle scuole la possibilità di sperimentare e innovare, slegandosi dalla direzione centrale, esercitando la responsabilità di rispondere ai bisogni delle proprie comunità e dei propri giovani.

E’ accaduto in passato in periferia, laddove la capacità e le iniziative delle scuole ha avviato innovazioni che poi, anche se in malo modo, sono state recepite solo successivamente riforme di sistema.

Quindi è ancora possibile oggi operare a partire dalla scuola, dove risiedono potenzialmente le forze dell’autonomia, utilizzando alcune norme (come spesso ha ricordato Annamaria Poggi) che la dimenticanza delle forze conservative non ha abrogato: il D.P.R. 275/1999 (il berlingueriano Regolamento dell’autonomia scolastica) e il D.M. 111/1999 (riguardante la sperimentazione dell’autonomia scolastica).

Ma affinché questo accada, pur in questi ristretti margini normativi,  serve un gruppo dirigente che si prenda la responsabilità di agire, con una chiara visione, professionisti dell’istruzione e dell’educazione preparati ed appassionati, un movimento di insegnanti che non rimanga curvo sulle proprie condizioni precarie, ma sia fiero della propria dignità professionale.

Perché tutto questo avvenga (e laddove già avviene accade proprio così) occorre che risorga quello che Dario Nicoli chiama “sentimento di dignità civile” dei professori e dei presidi, vera chiave di un’autonomia che, cominciando già da oggi, prepara le condizioni di una conduzione autonoma dell’istituzione scolastica.