E’ arrivata ieri in Consiglio dei ministri la proposta sulla cosiddetta autonomia differenziata, prevista dalla nostra Costituzione e richiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Che accadrà in concreto? Leggeremo le carte, anche perché, purtroppo, c’è molta confusione, dato che sia favorevoli che contrari sono concentrati più a fare propaganda che a informare.
Facciamo un esempio: Lombardia e Veneto possono anche chiedere che alle Regioni vengano trasferite più risorse economiche di quelle che attualmente lo Stato spende per erogare i servizi e/o gestire le materie interessate dalla “devoluzione”, ma è improbabile (ci sarebbe un evidente rischio di incostituzionalità) che ciò possa avvenire. Eppure è solo su questo che si concentrano le critiche di chi parla di “secessione dei ricchi”. Aggiungiamo che le Regioni a guida leghista hanno tutto da guadagnare dal fatto che i loro elettori siano convinti di questo e così assistiamo più a processi alle intenzioni che a un dibattito di un “popolo informato”, con buona pace di Tocqueville.
Per quel che riguarda le materie effettivamente trasferite, qualcosa in più è trapelato. Il presidente della Regione Emilia-Romagna è intervenuto nelle settimane scorse per anticipare che non è interessato a tutte le materie, ma “solo” a 15 (su 23) e ad esempio – per quel che riguarda l’istruzione – è interessato alla programmazione scolastica, ma non a gestire il personale. Il Veneto, con Zaia, non ha mai nascosto di essere interessato a tutte le materie e la Lombardia sembrerebbe andare nella stessa direzione.
In questo quadro generale, particolare importanza riveste proprio il comparto istruzione, che è indubbiamente – tra quelle potenzialmente interessate – la materia più significativa, sia per impatto sulla popolazione (gli alunni delle scuole pubbliche sono circa 8,7 milioni, di cui 900mila nelle scuole non statali), sia per dipendenti pubblici interessati (circa 1 milione di persone, tra dirigenti, personale docente, non docente e amministrativo). I sindacati della scuola esprimono una posizione decisamente contraria a questa ipotesi, in particolare si denuncia il rischio di una frammentazione del sistema scolastico, che lo renderebbe inadeguato a garantire pari diritti e successo formativo: sono proprio queste le parole d’ordine che stanno circolando.
Vedremo perché questo approccio ci convince poco nel merito, ma innanzitutto ci preme sottolineare che il rischio vero che, a nostro avviso, sta correndo la scuola è completamente diverso. Ed è figlio della vera discontinuità tra il governo Renzi e quello Conte, che non è su questo o quel provvedimento, ma sulla centralità che si vuole dare alla scuola nel dibattito pubblico e nelle scelte di governo.
Renzi aveva riportato la scuola al centro della sua azione, ovviamente con tutti i suoi limiti ed errori e al di là del giudizio che ciascuno ha del merito delle scelte compiute. La nuova maggioranza ha evidentemente altre priorità, tra le quali la scuola – lo diciamo con rammarico – legittimamente non è contemplata.
In questo contesto, il rischio che corre la scuola è che si discuta di autonomia differenziata considerandola un’innovazione solo amministrativa; le scuole si ritroverebbero così a subirla, senza esserne invece una dei protagonisti. Ci piacerebbe, al contrario, che diventasse l’occasione per riaprire il dibattito sull’autonomia delle scuole, su come potrebbe ricevere da una tale innovazione nuova linfa vitale.
La scuola ha le risorse per imporsi nel dibattito, a dispetto di chi non la vorrebbe della partita. Perché possa essere protagonista in positivo, serve però che sgombriamo il campo da quelle preoccupazioni, cavalcate da certa politica in cerca di consenso facile e da un certo conservatorismo corporativo.
Si diceva che le parole d’ordine di chi in queste ore protesta sono nel segno del rischio di non saper garantire pari diritti e successo formativo per tutti. In realtà, l’attuale sistema non riesce a garantire nessuna delle due, lo dimostrano i dati sulla varianza dei risultati a livello regionale delle indagini Invalsi, quelli delle rilevazioni Ocse-Pisa, e soprattutto la drammaticità della dispersione scolastica. Tra le cause di questa situazione, qualcuno potrebbe annoverare la carenza di investimenti, ma siamo sicuri che sia esattamente così? Quali sono stati i risultati in questi anni degli ingenti investimenti per i Pon e i Por finalizzati al contrasto della dispersione o all’edilizia scolastica?
O, ancora, si dice “più tempo pieno” e come non essere d’accordo, ma quali fattori hanno impedito la sua diffusione? Facciamo una sola domanda (retorica): con la legge 107/2015 è stato assegnato alle scuole il cosiddetto organico del potenziamento, le scuole delle Regioni dove non è presente il tempo pieno in quale misura lo hanno destinato alla sua introduzione? In quale parte, invece, a mantenere aperti plessi scolastici con pochi alunni? Ma soprattutto, con l’autonomia differenziata di Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, cosa impedirebbe allo Stato di aumentare il tempo pieno in Calabria o in Puglia? E altri esempi si potrebbero fare.
Perché è importante che si abbandoni questo approccio chiuso e difensivo? Solo per onestà intellettuale? Solo perché – come ci sembra di aver dimostrato – è quantomeno impreciso? Non solo. Lo dobbiamo fare perché non ci possiamo permettere che si introduca l’autonomia differenziata passando sopra alle esigenze della scuola.
Si dovrebbe, piuttosto, sfruttare questa occasione per far fare un salto di qualità anche all’autonomia scolastica. Un recente volume di Sheerens ha dimostrato la prevalenza del contesto su tutti gli altri fattori che determinano il raggiungimento degli obiettivi del sistema di istruzione. Apparentemente un colpo a qualsiasi velleità di intervenire “politicamente” sulla scuola. A tutte tranne una, verrebbe da dire: tutte tranne l’autonomia. Quella scolastica – al pari dell’autonomia regionale – è stata a volte male intesa come una modalità organizzativa per contrastare gli effetti negativi del contesto, ma esse – le due autonomie – rappresentano al contrario il modo per adeguarsi in modo flessibile proprio alla prevalenza del contesto su tutti gli altri fattori.
Anche senza scomodare don Milani e le sue “parti uguali tra diseguali”, va da sé che se è il contesto a prevalere su tutto, l’autonomia è l’unica possibilità per adattarsi alla sua “forza”: se il contesto è così determinante, una scuola uguale a se stessa ovunque, anche in contesti non coerenti con il modello generale, non può che portare in quei casi al rigetto. Da qui la dispersione, gli scarsi risultati, la frustrazione di studenti, famiglie e personale della scuola.
Se quello che nascerà sarà solo un nuovo centralismo regionale, per le scuole cambierà poco o nulla. Ma se al contrario le scuole saranno protagoniste fin dall’inizio del processo, senza attardarsi in critiche con poco fondamento, forse questa volta – a vent’anni dalle leggi Bassanini – le cose potrebbero andare diversamente. Facciamone l’occasione per discutere di una governance coerente con l’autonomia, per sviluppare la cultura dell’autonomia, ad esempio con dirigenti aperti all’innovazione e con docenti che possano trovare in uno sviluppo di carriere diverse sia una soddisfazione economica che professionale.
Che bello sarebbe se l’associazionismo professionale e il sindacalismo confederale raccogliessero questa sfida! Che bello sarebbe riscoprire che i corpi intermedi sono in grado di riappropriarsi del ruolo che gli è proprio! E quanto bene farebbe alla scuola, quanto bene farebbe al processo in corso di devoluzione di poteri, quanto bene farebbe al Paese tutto.