In queste ultime settimane ho avuto l’opportunità di partecipare a diversi convegni sui temi riguardanti il settore della scuola paritaria e lo “stato di salute” del nostro sistema scolastico.

Nel giro di una ventina di giorni mi sono trovato nella condizione di assistere ad interventi tecnici e venire a conoscenza di dati, frutto di ricerche qualificate, che non solo mi hanno colpito, ma anche posto in una condizione di grande preoccupazione se non di costernazione.



Se posso fare un paragone, mi sono sentito come quello studente che pur avendo meritato numerose insufficienze nell’arco di un quadrimestre difficilmente realizza la sua situazione perché i voti li ha meritati in momenti diversi e solo alla consegna della pagella realizza la grave e preoccupante situazione complessiva, quasi con meraviglia perché inconsciamente “inaspettata”.



Nell’arco di una ventina di giorni tre incontri di livello hanno avuto da quattro interlocutori qualificati la stessa presentazione dello stato dell’arte del nostro sistema, ripetendo o integrando le stesse informazioni, raffigurando un quadro che per chi ama la scuola non può che essere fonte di forti riflessioni e di grandi preoccupazioni al punto di porsi la domanda: “ma per quanto tempo questo sistema potrà ancora sopravvivere?”.

Le note oggettive sono conosciute e troppo spesso dimenticate o sottovalutate e alcune di queste io stesso ho evidenziato in qualche articolo su questa testata, ma Andrea Toselli, presidente di PwC nell’incontro dell’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà tenuto a Firenze sul tema “Primo investimento l’educazione. Qualità e competenza dei giovani per il Paese”, Attilio Oliva e Antonino Petrolino nell’incontro dell’Associazione Treellle tenuto a Roma sul tema “Il coraggio di ripensare la scuola” e Francesco Magni nell’incontro della Associazione Articolo26, tenuto sempre a Roma sul tema “#Scuola libera” hanno sciorinato una serie di dati comunicandoli all’unisono, tanto che se fossero stati sullo stesso palco si sarebbe potuto dire che si esprimevano “in coro”.

Un sistema organizzato su un modello gentiliano quando frequentavano pochi studenti, già istruiti perché figli di una classe sociale abbiente, nobile o borghese, un modello pedagogico vecchio di 50 anni che porta avanti gli stessi tempi e le stesse metodologie (anche Venditti lo critica in una sua canzone – Compagno di scuola – “il professore che ti legge sempre la stessa storia sullo stesso libro, nello stesso modo, con le stesse parole da quarant’anni di onesta professione”), un sistema che perde ogni anno quasi 100mila studenti, una città come Bergamo che sparisce, che evidenzia un abbandono prima dei 16 anni pari al 14%, il doppio dei dati medi europei (siamo giustamente preoccupati del calo di natalità che porterà ad avere 70mila iscritti in meno ogni anno e ce ne lasciamo “scappare” 100mila!), così come i Neet al 20% contro l’11% europeo o la disoccupazione giovanile al 38% contro il 20% europeo, così come il numero dei laureati, solo 18 per ogni 100 iscritti alla scuola media superiore frutto anche della percentuale di diplomati molto più bassa rispetto alla media europea.

Gli obiettivi formativi di oggi sono gli stessi: formare la persona facendola crescere nei valori,  formare il cittadino nella capacità di relazioni e nel rispetto delle regole e prepararlo per un futuro lavorativo, ma la platea è cambiata con bisogni e stili cognitivi diversi e sono cambiate le esigenze di competenze utili per lavorare, anche per lavori esecutivi, mentre continuiamo ad offrire a tutti lo stesso modello di formazione con il risultato di far crescere il disagio degli insegnanti e la caduta di interesse degli studenti.

Pur nella diversità  degli ordini di fatto offriamo a tutti lo stesso percorso di preparazione sia per chi entrerà nel mondo del lavoro a 19/20 anni sia per chi vi arriverà, dopo un maggior periodo di formazione, a 28/30 anni con, oltretutto, il risultato che solo una bassa percentuale di studenti dice di aver perseguito una professione in linea con la preparazione avuta.

Dati sconfortanti, ma quello che mi ha colpito di più è venire a sapere che il 30% della nostra popolazione è in condizione di “analfabetismo funzionale” (15% la media europea) ossia persone che “leggono un articolo di giornale ma non sanno e non capiscono quello che hanno letto”.

Analisi impressionante, pessimista?

Il fatto inquietante è che arriva, nello stesso periodo, da tre fonti di ricerca diverse e se volessimo esprimere tutto questo in termini polizieschi ricordo che Agatha Christie diceva: “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”.

Sicuramente, lo dico con orgoglio, nella scuola italiana vi è una costellazione di buone pratiche, merito encomiabile di docenti e dirigenti scolastici professionalmente preparati, entusiasti e votati all’innovazione, buone pratiche sparse a macchia di leopardo che qualche volta fanno anche notizia, ma che non riescono a far decollare in una normalità di sistema le loro ottime esperienze, anche a causa di un’autonomia scolastica mai decollata e dirigenti che, in un sistema ingessato, anche se bravi non riescono ad avere il giusto ruolo nell’innovazione e nella rielaborazione dell’organizzazione della scuola.

Il convegno di Treellle ha lanciato un messaggio che condivido ed al quale mi associo: occorre avere coraggio ed è urgente averlo perché ormai il tempo sta per scadere. Coraggio per una diversa impostazione didattica, coraggio di mettere veramente al centro i livelli di preparazione dei nostri giovani scardinando le rendite di posizione che bloccano ogni tentativo di modernizzazione, di innovazione e di autonomia, coraggio per una visione di insieme che punti alla qualità complessiva della “scuola di massa” che comporta anche affrontare senza ideologie il tema delle risorse indispensabili  (tema che approfondirò in un prossimo articolo) per avere un miglioramento, coraggio di puntare sull’innovazione con un’adeguata preparazione dei docenti a saper affrontare le nuove difficili sfide cui sono chiamati, coraggio di far rientrare nella scuola la funzione educativa.

Non so se nei secoli Cassandra è stata una mia antenata, ma personalmente ho tre certezze: 1. se non si interverrà rapidamente con coraggio verso il cambiamento, ci aspetta un’inevitabile deriva; 2. non dirò mai l’avevo detto ma non sono stato ascoltato; 3. non potrò che essere assalito da una terribile angoscia nel veder tradito il futuro dei nostri figli attesi da meno preparazione, meno capacità competitiva con i coetanei europei con i quali dovranno competere, una maggior tentazione ad abbandonare la scuola e da più disoccupazione.