Ne Il cavallo e la torre (1991) di Vittorio Foa c’è un passaggio su lavoro e studio che merita una riflessione. La rottura dello schema gentiliano, intesa come crisi di congruità della scuola con i bisogni manifesti della società, avviene alla fine degli anni Sessanta, quando i consumi del proletariato valicano la sponda del necessario per la sopravvivenza e tendono ad omologarsi a quelli della piccola e media borghesia. Nello stesso arco temporale, il movimento studentesco mette in evidenza il carattere di classe dell’istituzione scolastica, recuperando alcune intuizioni gramsciane sul rischio della segmentazione sociale attraverso la scolarizzazione “a strati”, e denunciando il carattere autoritario dell’istituzione. La posizione di alcune frange del sindacato è interessante: l’idea è che, soprattutto attraverso i corsi serali e le 150 ore, occorresse “rompere il muro dell’ignoranza che preclude la comunicazione sociale”, mettendo in tal modo in crisi il modello precedente della formazione professionale come “specializzazione” dell’aristocrazia operaia, quale orizzonte alto della classe lavoratrice. Né si trattava soltanto del passaggio ad una formazione polivalente, quale chiedeva l’industria in quegli anni di transizione tecnologica postfordista, ma proprio di consentire ai lavoratori di appropriarsi di una cultura generale, “che ne aprisse le menti alla comprensione della loro collocazione nella società, una formazione che rompesse l’omogeneità della fabbrica”. Lo studio quindi non solo come funzionale al lavoro, ma come valore assoluto.
Risalendo “per li rami” il corso del dibattito all’interno della sinistra del dopoguerra, la posizione di Foa e di parte della Cgil di quegli anni non faceva che riprendere il Vittorini della polemica con Marchesi – siamo nel 1945, ancora lontani dalla media unica – sul Politecnico, a proposito della scuola della Repubblica e del suo futuro. Al crociano Marchesi, che voleva, dopo gli otto anni di obbligo, una selezione rigorosa negli accessi, in tutto simile e omogenea al modello gentiliano, fatto salvo l’incremento di tre anni in più per tutti, lo scrittore siciliano opponeva una visione più problematica dell’acculturazione delle masse:
“È un problema di formazione dei quadri sociali il problema fondamentale della scuola? […]. Vi è molto di più che la scuola può insegnare: la scuola può insegnare tutto quanto occorre all’uomo per diventare soggetto di cultura e di coscienza, di libertà, di capacità creativa e di fede nel progresso civile”.
Di contro ad una concezione funzionalista dell’istruzione, Vittorini sosteneva la necessità di immaginare una scuola che permettesse anche al “più umile lavoratore manuale” di trovarsi
“di fronte ai libri, di fronte alle opere di arte, di fronte al pensiero scientifico e filosofico, di fronte alle ideologie politiche, di fronte ad ogni ricerca e ad ogni esperimento della cultura, nelle stesse condizioni di assimilabilità in cui funzionalmente si trova l’ingegnere, il medico o il professore”.
In modo larvato (ma neppure tanto), il “politecnico” scrittore siciliano rimproverava al grande latinista di volersi tenere ben stretto il nobile patrimonio del proprio umanesimo – in questo peraltro perfettamente in linea con l’aristocratismo culturale di Togliatti. L’apertura democratica di Vittorini avrebbe dovuto attendere un quarto di secolo per diventare prospettiva politica nella riflessione e nell’azione della sinistra. E quando arrivò, cominciava già ad essere tardi.
In quegli anni, a sinistra, solo Pasolini sembra uscire dal coro dell’esaltazione progressista della scolarità prolungata. Guardando i volti inespressivi e soccombenti dei giovani delle borgate, sedotti dai miti piccoloborghesi, Pasolini denuncia la scomparsa di un’intera cultura. La sua posizione viene confusa ancora adesso con un’istanza regressiva e nostalgica e contiene il rischio oggettivo di coincidere con il rimpianto reazionario di una società segmentata. Eppure la critica alla scuola di massa conteneva un elemento di verità potente, che sembrava collimare, per certi versi, con la critica della scuola di classe, esercitata dal meglio del 68. C’era tuttavia una differenza di fondo: per il movimento, e per il Pci stesso, il superamento di quella condizione era possibile attraverso un incremento quantitativo dell’istruzione e la conquista dell’egemonia ideologico-culturale; per Pasolini, invece, la partita era persa in partenza. Nella sua personale verifica dei poteri, l’ideologia e la politica erano solo deboli mascherature di un conflitto solo apparente: il vero combat era già finito prima che ce ne accorgessimo, lasciando ai vinti l’illusione eticamente deformante di essere, per dirla con Montale, “farcitori” e non “farciti”. La scuola, per Pasolini, era l’acceleratore sistemico di questa deriva, che aveva ridotto l’autonomia delle classi subalterne all’esercizio di un miserando mimetismo sociale. Nella sua visione apocalittica del mondo tardocapitalistico, la scuola di massa svolgeva insomma il compito di assimilare definitivamente alla cultura dell’affluenza e del consumo anche quei soggetti che ne erano restati fino ad allora al riparo. L’utopia liberante del ’68 finiva in tal modo per capovolgersi nel suo contrario, schiudendo le porte alla distopia oppressiva dell’omologazione dei comportamenti.
Il pessimismo dialettico di Pasolini ci aiuta ancora oggi a non trascurare ciò che di contraddittorio e, perciò, vitale la storia di quegli anni ci ha lasciato in eredità, a mezzo secolo di distanza, anche se si assuma come punto di osservazione quello, parziale ma sintomatico, del mondo dell’istruzione. Bene hanno fatto dunque Luciano Benadusi, Vittorio Campione, Roberto Moscati, curatori dell’agile e denso libretto edito da Guerini Il ’68 e l’istruzione. Prodromi e ricadute dei movimenti degli studenti, a raccogliere una serie di contributi sul tema, mettendo l’accento meno sugli aspetti di rottura dell’“anno degli studenti” (per dirla con il titolo dell’“instant book” pubblicato da Rossana Rossanda nel giugno 1968) che sulla continuità di un processo più ampio, nella cui cornice temporale gli eventi e la innegabile scossa prodottasi in quel periodo di faglia furono in parte compimento di fenomeni già in atto, in parte apertura verso scenari destinati a dispiegarsi negli anni a venire.
Se una particolare attenzione viene riservata al contesto italiano, non mancano per contro aperture ricostruttive dedicate ad altri paesi, in particolare gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra, dove il movimento studentesco diede luogo ad esperienze significative di innovazione o accelerò processi di cambiamento istituzionale destinati a durare nel tempo. Restituzione storiografica e bilancio di eredità sono dunque le due coordinate comuni ai saggi che compongono il volume. Di essi darò conto non uno per uno, ma enucleando i temi che maggiormente spiccano dal loro insieme, come elementi che mi paiono emergere con più forza e costanza, pur traguardati e messi in rilievo da prospettive disciplinari diverse e secondo le diverse sensibilità dei singoli autori.
(1 – continua)