A Genova il crollo del ponte Morandi sembra un po’ dimenticato, ma ancora la gente soffre. A Ponente accanto al Polcevera sono in corso di evacuazione definitiva le palazzine di via Porro e delle vie limitrofe poste proprio sotto il ponte. Una volta completata si passerà alla demolizione. Per ora c’è il tempo per l’ultima visita, si prendono le ultime cose e via con un’altra vita, lontana da quei pilastri, ora un po’ maledetti.
In centro, nei locali mostre della biblioteca Comunale Berio, accanto alla centralissima via XX Settembre, alcuni studenti universitari hanno provato a non dimenticare e fare in modo che quel disgraziato ponte fosse un’occasione per stare di fronte a tutto quel dolore. Si sono accorti della sfida che quell’avvenimento così deleterio portava con sé e hanno tentato di fare i conti con quella sofferenza che dopo nove mesi sembra un po’ sopita.
E sono andati a cercare la figura biblica di Giobbe, protagonista di una mostra presentata al Meeting di Rimini 2018 dal titolo “C’è qualcuno che ascolta il mio grido? Giobbe e l’enigma della sofferenza”. Dunque non la banale e superficiale ricerca della colpa, il gioco inconcludente delle responsabilità che mette a posto le coscienze, rimuove il problema con la lettura di articolo di cronaca e mette tutto a tacere, butta ogni cosa nell’oblio della memoria individuale. Questi ragazzi si sono invece posti la domanda cardine, si sono chiesti il perché di quelle 43 persone morte in un attimo, il perché di un fatto così tragico accaduto a una città come Genova, già ferita da ripetuti alluvioni con morti e feriti. Hanno invitato un prete spagnolo, Ignacio Corbajosa, curatore della mostra, a discutere con il loro sindaco sul tema “Il ponte Morandi e l’enigma della sofferenza”. Non uno qualunque, ma il sindaco, per trovare risposte e stare davanti al mistero dell’uomo sofferente. Bello il gesto, interessante l’intuizione di non cadere nella scontatezza della logica causa-effetto, di risolvere il problema con l’attribuzione delle responsabilità alla Società autostrade e la soluzione del dramma affidata alla sentenza di un giudice.
Purtroppo il primo cittadino non ha avuto tempo per loro, impegnato in un’altra manifestazione, probabilmente per lui più prestigiosa e ha mandato un sostituto, l’assessore al bilancio Pietro Piciocchi. Quei ragazzi non si sono lamentati, sono stati contenti di aver realizzato il loro progetto, parlato con le tante persone che hanno visitato la mostra e che si sono fermate a parlare della giustizia, della verità, della natura segnata dal male e delle domande a cui è difficile trovare risposte. Hanno fatto quello che dovevano, imparato dall’esperienza e ringraziato della stima ricevuta. Consci però che le risposte evasive, parziali, non bastano, che ci vuole un di più per stare davanti al dramma della morte e che la loro città aveva bisogno di una consapevolezza più grande.
Il sindaco Marco Bucci però ha perso un’occasione a non farsi vedere. Con lui l’hanno persa le strutture dirigenziali di una città smarrita, gli intellettuali e i giornalisti, il ceto economico a sottovalutare il tentativo gigantesco di stare davanti alla vita e ai suoi drammi con delle domande vere, proposte da alcuni semplici studenti universitari che appunto si sono chiesti se “L’imponenza del reale, lo stupore del vero, possano vincere l’impressione del male”.
Le cronache dei giornali e le analisi degli ingegneri non raccontano se quel ponte abbattuto sia segno dell’assenza o della presenza di Dio, non possono dichiarare la pretesa ingenua della ragione che ponendo tutte le risposte, si assume il compito di essere misura del tutto. Confrontarsi con la figura di Giobbe, con l’uomo che contesta a Dio il male ricevuto dalla vita, ma che poi capisce che non ci si può mettere in contesa con l’Onnipotente, anche solo censurandolo, perché solo una presenza “altra” aiuta ad alzare lo sguardo, a entrare nelle profondità dell’umano. “Non un pubblico ministero, ma quello di un bambino che domanda, di fronte a una presenza buona”, come sta scritto in un pannello, declina il modo di stare davanti ai fatti del 14 agosto 2018.
Gli studenti genovesi invece di lamentarsi e dimenticare, hanno proposto a tutte le famiglie delle vittime e a quelle che oggi stanno abbandonando le loro case di cercare nella figura di Cristo il modello dell’uomo che soffre e che ha scelto di essere compagnia di Dio all’uomo, facendosi carico di tutto il dolore dell’umanità. Non una compagnia astratta, sentimentale, ma una presenza viva, un’amicizia condivisa. Perché quei giovani stanno nelle aule e nei corridoi dell’università per proporre proprio questo sguardo diverso, più umano, verso la vita e la sofferenza.