La “svolta”  – almeno apparente –  in corso nella guerra russo-ucraina è stata definitivamente preannunciata venerdì da un editoriale del New York Times. Un intervento che ha fatto molto rumore perché è parso contraddire all’improvviso 90 giorni di appoggio “senza se e senza ma” alla Guerra Democratica lanciata dal presidente Joe Biden contro la Russia putiniana, tornata Impero del Male. “La guerra in Ucraina sta diventando complicata e l’America non è pronta”: nei fatti un de-endorsement secco a Biden, ritratto in posa pensosa e avviluppato in una ragnatela – non in una bandiera – gialloblu.  “Il presidente Biden – intima il Nyt – deve chiarire al presidente Volodymyr Zelensky e al suo popolo che c’è un limite alla misura in cui gli Stati Uniti e la Nato possono spingere il loro confronto con la Russia; c’è un limite alle armi, al denaro e al supporto politico”.



Il Nyt è arrivato in realtà quasi ultimo a rilevare che se Putin ha fallito da tempo il suo obiettivo strategico (conquistare Kiev in tre giorni), la Casa Bianca è vicinissima a un fallimento tattico: quello di costringere Mosca a fermare la sua aggressione all’Ucraina prima che i danni collaterali della crisi geopolitica comincino a farsi sentire anche in America.   Ci aveva già pensato in settimana il Washington Post  (di proprietà di Jeff Bezos, patron di Amazon) ad avvertire Biden che il crollo di Wall Street e la stagflazione galoppante  hanno segnato la fine virtuale del credito politico/mediatico aperto dall’establishment d’Oltre Atlantico a una nuova confrontation diretta con Mosca.  Da questi pronunciamenti – con tutta evidenza –  l’amministrazione “dem” ha tratto rapide conseguenze per passi inequivocabili. Dopo settimane di stallo militare e diplomatico, un nuovo colloquio fra i due capi di stato maggiore del Pentagono e del Cremlino (nel ruolo singolare di “sherpa” tecnici) ha avuto come esito immediato la resa del Battaglione Azov nell’acciaieria di Mariupol, seguita dall’ipotesi di uno scambio di prigionieri. Sarebbe di fatto la pre-apertura di negoziati veri per un “cessate il fuoco”.



Nelle stesse ore, d’altronde, le onde lunghe della crisi ucraina hanno portato oltre la linea rossa l’instabilità In Israele: dove il Governo Bennet ha virtualmente perso la maggioranza parlamentare. E non è affatto escluso che questa specifica “svolta” abbia spinto a reagire in tempo reale il Nyt: che resta il grande quotidiano – edito da israeliti – della più grande metropoli israelita del mondo (Israele incluso).

La quasi-guerra-mondiale del 2022 ha colto lo Stato ebraico in un momento delicato: il consolidamento del Governo guidato da Naftaly Bennett, dopo quattro elezioni in due anni e la fine (turbolenta) del lungo “regno” di Bibi Netanyahu. Ciò in coincidenza con l’altrettanto turbolenta transizione alla Casa Bianca fra Donald Trump (di cui “King Bibi” era grande alleato) e Biden. L’esecutivo Bennett è nato in un contesto estremamente sfidante: un Premier proveniente dalle fila della destra nazionalista e ortodossa si è cimentato nel superamento nell'”era Bibi” con una coalizione ristrettissima nei numeri (61 seggi su 120 alla Knesset) ma politicamente “larga”, anzi “multicolore” nella composizione. Ha ricompreso anche parlamentari arabo-israeliani e soprattutto il centro-sinistra del generale Benny Gantz, ripetutamente sconfitto da Netanyahu nelle urne. 



È subito parso un esperimento più generazionale che politico, quello condotto dal 50enne Bennett,  un finanziere tech di fatto con doppio passaporto, americano e israeliano. È tuttora il tentativo – faticoso e per molti versi controverso –  di catapultare il Paese nel futuro, fuori dal teatro mediorientale: rendendo obsoleta l’eterna questione dei Territori, assorbendola in una strategia “Israele 4.0”, attorno a una nuova centralità globale del Paese come hub tecnologico e finanziario.

La guerra ha colto Israele – ancora in pandemia – all’inizio di questa ennesima “traversata del Mar Rosso”: anzitutto con il focolaio siriano ancora acceso e la necessità di un’alleanza militare di fatto con la Russia per tenere a bada la minaccia iraniana (tuttora attiva). Il “reset” anti-trumpiano imposto da Biden in Medio Oriente ha intanto reso problematiche le spregiudicate partite diplomatiche lasciate aperte da Netanyahu in tutto il mondo arabo (dal Marocco all’Arabia Saudita passando per la “terra di nessuno” libica e gli Emirati). Soprattutto: sono rimasti nel limbo gli “Accordi di Abramo”, l’ennesimo piano annessionista dei Territori strappato da Netanyahu a Trump (certamente sgradito a Biden, probabilmente non più graditissimo a Bennett). Non da ultimo: l’aggressione russa dell’Ucraina – presieduta dall’israelita Zelensky – ha spinto decine di migliaia profughi (ebrei e non) alle frontiere di un Paese popolato da due milioni di immigrati russi (ebreo-ortodossi)

Nessun stupore se, con puntualità cronometrica, dopo il 24 febbraio in Israele sia di nuovo divampato il terrorismo: chiaramente armato da fuori confine, ma in un contesto interno tornato rapidamente infiammabile. Nessuna sorpresa se, meno di tre mesi dopo, una giornalista di Al Jazeera è rimasta uccisa in una sparatoria e i suoi funerali si sono trasformati in guerriglia urbana. Nessun scandalo se Ghaina Rinawie Zoabi – parlamentare israelo-palestinese socialdemocratica – ha deciso di ritirare la sua fiducia alla maggioranza Bennett. Salvo tornare ieri sui suoi passi. Sei settimane fa – nei giorni della Pesach – lo stesso passo era stato annunciato da Idit Stilmann, una deputata ultra-ortodossa di Yasmina, il partito del Premier, ufficialmente per una questione interna (l’uso di pane non azimo negli ospedali israeliani nei giorni festivi).

Il dato di fatto è che Bennett per tre giorni ha potuto disporre di soli 59 voti sicuri alla Knesset e continua comunque a poggiare su una non-maggioranza di 60. Non bastano per governare e lo spettro di nuove elezioni anticipate potrebbe materializzarsi a breve. Non troppo curiosamente, i più preoccupati e guardinghi appaiono i partiti e media del centrosinistra: improvvisamente tornati a fare i conti con il possibile ritorno di Netanyahu. Ma è lo stesso incubo dei “dem” americani e del loro Nyt in condominio con la storica ala liberal della comunità ebraica Usa: che l’effetto collaterale ultimo della guerra russo-ucraina sia il ritorno di Trump alla Casa Bianca nel 2024. Magari con il viatico di una sconfitta “dem” alle elezioni di midterm in autunno. Perché questa sì sarebbe una vittoria netta, strategica di Putin: l’incasso della scommessa rischiosissima puntata l’estate scorsa con la manipolazione dei prezzi del gas in coincidenza con la disastrosa ritirata americana dall’Afghanistan.

Presidente Biden, basta così in Ucraina. A Wall Street ci possiamo tappare il naso per i fantastiliardi bruciati in una sola seduta, possiamo raccontare ancora per un po’ che l’inflazione è colpa del blocco-Covid dei porti cinesi e non della “guerra del gas”. Possiamo rassicurare gli elettori americani che “l’Europa è con noi, salvo quel putiniano di Orban eccetera”. Ma non possiamo permetterci che in Israele torni da ri-vincitore il grande amico di Trump (e un po’ anche di Putin e perfino di Xi).

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