È cominciato l’effetto-Draghi. “Il Pd è nuovamente al bivio tra la socialdemocrazia e il niente” dice Calogero Mannino, democristiano, cinque volte ministro. In realtà con l’arrivo di Draghi al governo non solo il Pd ma tutti i partiti dovranno scegliere; per i democratici, però, “che hanno governato senza avere mai vinto un’elezione dal ’92”, la posta in gioco è molto alta, perché l’abbraccio con i 5 Stelle si sta rivelando mortale. Il Pd pretende di rappresentare il cardine del sistema politico, soltanto che al timone non c’è Togliatti, ma Zingaretti con Bettini.
Per Mannino, Draghi può cambiare molte cose e i primi segnali ci sono. “Può dare un contributo fondamentale al riordino della vita politica italiana, ricongiungendone i fili dal punto in cui, nel 1992, sono stati spezzati”.
Per quale motivo il Pd è così orfano del Conte 2 e ostinatamente attaccato al patto con M5s?
Nel 1992 quello che oggi si chiama Pd ha mancato di fare l’unica scelta che la ragione politica avrebbe suggerito: diventare un partito socialdemocratico. I post-comunisti hanno invece preteso di conservare la loro diversità. E questa diversità li ha portati a ritenersi il Cerbero della politica italiana.
Perché Cerbero, il mitologico cane a tre teste?
La prima testa è quella del Pci come storia archiviata perché inattuale. La seconda è quella del politicamente corretto invece che del partito politico rappresentativo della società. Per capirci: oggi Landini appoggia il Pd, ma il Pd non è più il partito che rappresenta Landini come il Pci rappresentava Di Vittorio.
E l’ultima testa?
È quella del partito come espressione della prima crosta, quella più superficiale, dello Stato profondo: il combinato disposto tra magistratura e apparati dello Stato. Quasi che il Pd volesse tenere insieme Pecchioli e Andreotti.
Parafrasando Pasolini, verrebbe da dire: la ceneri di Gramsci.
Ma una sorta di preteso gramscismo c’è ancora. Ho detto “preteso”, sia chiaro. Lo chiamerei bettinismo thailandese. È la pretesa di rappresentare il cardine del sistema politico.
La Thailandia è così importante?
È la riduzione alla modalità orientale dell’egemonia del moderno principe. Ne parlo con rispetto, ma ne sottolineo l’unicità differenziale dalla prassi togliattiana. Infatti è una posizione esclusivamente “politicista”.
Il Partito democratico resta però l’erede più diretto della prima repubblica.
No, vede? Si sbaglia anche lei. Dopo il ’92 in Italia non ci sono stati partiti politici, ma solo movimenti populisti. Se i partiti politici protagonisti della vita democratica vengono decapitati dall’accetta giustizialista è perché è stato sollevato il turbine populista. Ed è una storia che si trascina in avanti per lungo tempo. Basti pensare che il Pd ha aderito all’Internazionale socialista soltanto con la segreteria Renzi. Fino a quel tempo il Pd non si riconosceva nelle grandi correnti politiche europee, preservando il proprio carattere di movimento sulla base del preteso coefficiente della “diversità”. Quando poi nel 2018 i populisti più autentici – anche perché si professavano tali –, i gialli e i verdi, si sono alleati, non sono riusciti a governare il paese in una fase di grande trapasso, sul piano interno e su quello geopolitico esterno.
Perché chiama in causa il governo giallo-verde?
Ma perché a quel punto Cerbero è stato pronto a raccogliere i 5 Stelle, per un’opera di rieducazione politica.
Con quale obiettivo?
L’obiettivo dichiarato era la costituzionalizzazione di M5s. L’obiettivo ottenuto, però, è stato quello di di mortificare la Costituzione in un aspetto sostanziale decisivo, l’ampiezza della rappresentanza, assecondando i 5 Stelle con il taglio dei parlamentari. Nel frattempo, con Bonafede alla Giustizia, Cerbero poteva così rafforzare la sua terza testa, quella della stretta adesione alla magistratura e ai relativi apparati. La crisi del Csm ha però scoperchiato la pentola, portando alla luce il problema istituzionale della funzione giudiziaria.
A che cosa attribuisce la grande capacità del Pd di dissimulare il proprio stato di crisi?
È un tardo riflesso di quella doppiezza che ad essere eleganti diciamo di tipo leninista. Oggi è la metodologia pseudo-gramsciana di Bettini.
Di nuovo Bettini. Perché pseudo?
Perché Gramsci ipotizzava un blocco sociale e un’egemonia sul blocco sociale. Di questo metodo gramsciano oggi c’è soltanto una versione molto prosaica che si riduce a trasformismo agile e scaltro.
Che cosa succederà adesso che la gestione Draghi potrebbe far fare uno o due passi indietro ai partiti?
Draghi farà fare ben oltre che passi indietro. Draghi è la sfida che la provvidenza della storia, che qualche volta interviene in modo manifesto, lancia all’intero sistema politico. Il futuro della vita democratica è affidato alla definizione di partiti moderni, non movimenti personali o di occasione, ma fatti di tre cose: un programma politico, aderente alla complessità dei problemi della società e dello Stato, una classe dirigente motivata da un’identità culturale e ideale, ed una rappresentanza della società, delle sue componenti e parti.
E nel merito delle posizioni?
Con Draghi e dopo Draghi la scena politica italiana ammette, similmente alle grandi nazioni dell’Europa, soltanto due posizioni politiche fondamentali. Il partito socialdemocratico e il partito popolare europeo. Sulla scena potranno anche giocare altri soggetti, ma con motivazioni politiche autentiche anche quando minoritarie e parziali.
Torniamo al Pd.
Il punto vero di cui nel Pd non si sono accorti è che il M5s, diversamente da quello che pensavano o pensano Bersani, Zingaretti e Bettini, non è oggetto ma soggetto di assimilazione.
Zingaretti lo nega di sicuro.
Ma cosa è successo l’altro giorno? A Draghi ha detto sì prima Grillo e poi il Pd, al di là di quello che potrà dire la piattaforma Rousseau. Doveva essere lui, Zingaretti, a portare i 5 Stelle a sostenere convintamente Draghi, invece è successo il contrario. Vuol dire che il Pd non è il partito garante delle istituzioni, ma solo della sua terza testa.
È questa adesso la forza di Conte?
La forza di Conte è la subordinazione politica di fatto del Pd. Con il suo annuncio al tavolino di piazza Colonna, Conte si è auto-nominato capo del centrosinistra. Come punto di intersezione tra M5s e Pd, è insostituibile e sa di esserlo. È più strano che non lo sappiano più Zingaretti, Orlando e Bettini. Dicendo ciò che sarebbe ovvio, cioè che intende rimanere fuori da questo governo, ha voluto dire che il leader è lui. Il Pd voleva assorbire i 5 Stelle e si ritrova con un capo che viene da M5s.
Fino ad oggi il Pd era il rappresentante dei poteri europei in Italia. Con Draghi è esautorato?
Il Pd non è mai stato espressione dei poteri europei, ma soltanto interlocutore della parte formale degli apparati. Il vero riferimento dell’Europa è stato ed è il livello dello Stato profondo – per quanto se ne può parlare in Italia –, quello di Bankitalia, della Ragioneria generale dello Stato, della nostra diplomazia, dei Servizi. E nemmeno, aggiungo, il Pd ha mai avuto una voce che conta in Europa.
Il presidente dell’europarlamento è David Sassoli, Pd.
Una nomina arrivata solo dopo che Renzi ha portato il Pd nel Pse (febbraio 2014, ndr). E poi la nomina nella Commissione di Gentiloni. È stato possibile solo dopo che il Pd era entrato nel Partito socialista europeo.
Giorgio Napolitano?
Napolitano è stato garante dell’Europa, e non soltanto dell’Europa ma degli Usa, in quanto garante di quello Stato profondo. Non in quanto esponente Pd.
Come commenta la svolta “pragmatica” – così l’ha definita lui stesso – di Salvini verso Draghi e con Draghi all’Europa?
Era nelle cose e se non sbaglio ne abbiamo già parlato in almeno tre interviste. È una scelta pragmatica nella misura in cui ha capito che non esiste più l’orizzonte geopolitico del 2018. Con l’elezione di Biden si chiude una certa stagione del “nazionalismo”. C’è poi la prova che l’Europa ha dato con Draghi presidente della Bce, la sua politica del Qe e poi la Merkel e Macron che hanno proposto il Recovery Fund. Mutato il quadro di riferimento si impongono, poi, due aspetti.
Quali sarebbero?
Il primo è che il Nord produttivo non si sarebbe più sentito rappresentato. Il secondo è che in sede di Parlamento europeo Salvini non può rimanere ai margini. Ripeto: a Washington adesso c’è Biden.
Che ruolo ha Draghi in questo quadro?
È un cavaliere bianco. Governando bene e concretamente, può dare un contributo fondamentale al riordino della vita politica italiana, ricongiungendone i fili dal punto in cui, nel 1992, sono stati spezzati. Può dare a questa fase politica non solo il contributo di un governo efficiente e fattivo all’interno ma anche, all’esterno, quello dell’avanzamento del processo unitario europeo, e dell’aggiustamento della posizione dell’Italia nel quadro geopolitico attuale.
E quanto alle sue scelte di governo?
Abbiamo tutti visto che Draghi non è vincolato a scuole, neppure della dottrina economica. È un pragmatico, cioè un “concretista”, come Gobetti definiva i Popolari di Sturzo: farà quello che ha in mente, con spirito aperto e aderente alla durezza della realtà. Non va mitizzato, come del resto non va mitizzato nessuno. Rispetterà la regola dei primi 90 giorni: tutte le cose importanti che sceglierà di fare, le farà in tre mesi.
Cosa dovrebbe fare il Pd per salvarsi dall’abbraccio mortale con M5s?
Bettini e Zingaretti vadano a leggersi Amendola. E facciano, come voleva Amendola, un partito del lavoro.
Alcuni rumors attribuiscono a Conte e ad esponenti della sua ex maggioranza il proposito di far naufragare il nascente governo. Potrebbero riuscirci?
La navigazione di Draghi non è facile. Insidie e turbolenze possono presentarsi. Ma oltre gli effetti rovinosi non c’è trippa per gatti, si dice in romanesco. Nel senso che Mattarella non affiderebbe mai al governo Conte, riesumato, il compito di portare il paese alle elezioni.
(Federico Ferraù)
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