Le ricorderemo come le “elezioni climatiche”. Nella paciosa politica svizzera, quando dalle urne escono variazioni di oltre due/tre punti nel risultato di un partito, i giornali parlano di “rivoluzione”. Variazioni tra il 6 e il 10%, come quelle apparse domenica sugli schermi attoniti della cancelleria federale a Berna, hanno fatto gridare letteralmente allo tsunami. Ci si aspettava che l’onda verde lambisse anche le Alpi, certo. Ma non che gonfiasse i due partiti ambientalisti, Verdi e Verdi Liberali, al punto da farli volare, con 45 seggi (29+16) su 200, al secondo posto nella Camera bassa del Parlamento (dietro il partito nazionalista di Blocher, l’Udc, in sensibile perdita di quota).
E varcate le Alpi, l’onda del raffreddamento globale che scendeva dal Nord Europa ha spinto dal 3,5% al 13,9% l’ex partitino dei Verdi ticinesi, che festeggiano a sorsate di spumante bio la conquista di una delle otto ambite poltrone spettanti al Cantone italofono in Consiglio Nazionale; poltrona sottratta, per giunta, alle terga di una dei due rappresentanti della Lega dei Ticinesi, unico partito, con l’Udc, a non essersi tinto di verde in campagna elettorale.
Un trionfo ecologista? Sì, ma un po’ guastato dal tonfo dei compagni socialisti. Tra i perdenti infatti c’è anche quel Partito socialista che contava di riscuotere parte dell’incasso elettorale “grün” grazie a una campagna dai toni verde acceso. E invece è finita in un altro modo: il 20% degli elettori socialisti di 4 anni fa hanno cambiato casacca, scegliendo quella col marchio verde originale, il che è costato al Pss quattro seggi in Parlamento. Ne perdono 4 anche i liberali, terzo partito svizzero, quello del mondo imprenditoriale e bancario, che ha tentato una giravolta ecologica a pochi mesi dal voto ma il cui trasformismo è stato sgamato anche dall’elettore più sprovveduto.
E i democristiani? Hanno tenuto, arrestando per il momento un declino che dura da quasi vent’anni e che sembrava inarrestabile. La ragione sta probabilmente nel fatto che una patente ambientalista se l’erano conquistata sul campo, ad esempio con la ministra Leuthard che dopo Fukushima aveva decretato la chiusura delle centrali nucleari nel Paese. E poi il Partito democratico cristiano aveva a Roma uno… sponsor molto credibile quanto a sensibilità ecologica.
In realtà la Svizzera non ha aspettato Greta per avviare una politica virtuosa in senso ecologico, basti citare l’enorme investimento sostenuto per scavare sotto le Alpi il più lungo tunnel ferroviario del mondo, con lo scopo di spostare il traffico dalla gomma alla rotaia. Ma le cose ora si complicano con l’allarme climatico.
Va detto subito che anche qui, come un po’ dappertutto in Occidente, l’intellettuale di sinistra, orfano di riferimenti ideologici, anziché ripensarsi a partire dalle proprie radici, è balzato sul carro dell’-ismo più a portata di mano, quello ambientalista radicale. E anche da queste parti la comunicazione mediatica è presidiata dall’intellettuale di sinistra. Radio e televisione hanno pigiato l’acceleratore sull’emergenza climatica ormai da tempo. Tutti ricordano un anno fa una serata di tre ore a reti unificate, tedesca, francese e italiana, dove l’argomento antropogenico sul climate change è stato presentato in blocco come indiscusso e indiscutibile (con l’eccezione di uno sperduto montanaro “negazionista”), in mezzo a scenari catastrofisti da incubo. E la politica ha seguito, facendo a gara tra Confederazione, Cantoni e persino Comuni nel cercare di conquistarsi la pagella di primo della classe con proclami altisonanti e misure spesso avventate per “frenare i cambiamenti climatici”.
Un solo esempio. Qualche giorno prima del voto, la Camera dei Cantoni ha varato due misure a nostro parere precipitose e sconsiderate: l’aumento della benzina (10 centesimi a litro) e una tassa piuttosto pesante sui biglietti aerei acquistati in Svizzera. “Non ho nulla contro un ambiente pulito”, ha commentato Christoph Blocher, “ma per questo non è necessario affamare le persone. Tutte queste imposte e tasse previste sono programmi per i ricchi, che possono permetterselo, contrariamente a chi lavora sui cantieri, che ha bisogno dell’auto e del salario”.
È difficile, per una volta, dargli torto. Sperando che le eco-tasse non scatenino anche qui fenomeni stile gilet gialli. E aggiungendo che anche in Svizzera le multinazionali delocalizzano in Asia o in Africa quelle produzioni inquinanti che sul suolo elvetico non sarebbero tollerate secondo i canoni della sostenibilità ambientale che esse hanno giustamente iscritto nelle loro policy. E in questo non c’è nulla di promettente, di etico e di solidale, né tanto meno di sinistra.