La speranza di una soluzione diplomatica per la vicenda ucraina è l’ultima a morire, ma nelle condizioni attuali l’obiettivo di contenere l’escalation del conflitto bellico con l’adozione di sanzioni contro la Russia sembra l’unico approdo ragionevole possibile.
La scelta operata da Putin mette comunque la parola fine alle speranze, coltivate nel corso della pandemia Covid, di poter coordinare le scelte di politica economica dei grandi Paesi sviluppati e in via di sviluppo nell’ambito di obiettivi condivisi e di governance internazionale funzionale a realizzarli. Con tutta evidenza la transizione digitale e ambientale deve fare i conti con gli equilibri economici e politici che sono radicalmente mutati rispetto a quelli che hanno dato origine agli accordi della Wto a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso che hanno accelerato l’apertura dei mercati globali e consolidato il ruolo di nuovi protagonisti. I segnali della crisi della governance di questi processi erano già ampiamente evidenti per l’espansione delle aree di influenza politica ed economica della Cina, con l’intervento diretto della Russia e della Turchia nei conflitti della Siria e della Libia, nei sistematici tentativi di hackerare i sistemi di sicurezza vitali degli Stati e degli attori economici e finanziari, per gli effetti destabilizzanti sulla gestione del consenso popolare nei Paesi democratici. L’apertura dei mercati ha favorito la fuoriuscita dalle condizioni di povertà assoluta di miliardi di persone, ma ha deluso le aspettative di una crescita delle libertà democratiche.
Dopo anni dominati dal primato della finanza e dall’egemonia degli oligopoli dell’intelligenza artificiale sono tornate in gioco in modo prepotente le variabili geopolitiche e le volontà di potenza degli Stati nazionali guidati da regimi autoritari. Con tutto il potenziale di pericolosità, già ampiamente sperimentato nel corso della storia, rinvigorito dall’utilizzo spregiudicato delle nuove tecnologie informatiche che sono in grado di sconvolgere la vita quotidiana delle persone. Letta in questo contesto, la vicenda Ucraina è la punta di un iceberg dei conflitti aperti in varie aree del mondo, che a vario titolo si propongono l’obiettivo di indebolire il ruolo di guida svolto dalle democrazie occidentali per favorire un riassetto delle relazioni internazionali pilotato dall’inedita convergenza tra la Cina e la Russia. Emblematico il fatto che tutto questo avvenga nel territorio europeo e a valle delle gestioni a dir poco fallimentari della fuoriuscita delle forze alleate dall’Afghanistan, e di quella precedente messa in campo per esautorare il regime di Gheddafi.
Tutto questo comporta tre novità destinate ad avere un impatto strutturale sulle scelte politiche dei prossimi anni nell’ambito dei Paesi aderenti all’Ue, a partire da quelle economiche.
I costi della transizione energetica e ambientale, oltre che per gli specifici obiettivi di risparmio, dovranno essere ponderati sul livello di dipendenza generato dall’uso delle tecnologie e delle materie prime.
Per quanto riguarda l’Italia, nel giro di pochi mesi è stato completamente rovesciato l’impianto dei provvedimenti fiscali che erano stati evocati per incentivare la crescita delle energie rinnovabili con l’introduzione di nuove tasse per quelle fossili e con il blocco delle estrazioni del gas nazionale.
I costi della transizione ambientale stanno generando in parallelo un aumento dei prezzi dei prodotti energetici, la fuoriuscita di quote del reddito nazionale prodotto verso altre aree economiche e stanno influenzando la distribuzione del reddito interna di ogni Paese. Questo processo è in parte inevitabile e può essere compensato da una parallela crescita delle esportazioni o contenendo l’impatto sui prezzi finali prezzi finali tramite aumenti significativi della produttività. La calmierazione dei prezzi dell’energia sulle imprese e sulle famiglie tramite un aumento dei sostegni pubblici può essere una strada sostenibile nel breve periodo, ma se prolungata nel tempo concorre a formare un debito pubblico che dovremo onorare nel futuro.
E qui veniamo alla terza novità. La presa d’atto che l’inflazione è una componente destinata a durare nel tempo, anche per le conseguenze delle tensioni internazionali, porterà le autorità monetarie ad anticipare i tempi per l’aumento dei tassi di interesse. Un’eventualità che viene data per scontata dai mercati finanziari e riscontrata nei recenti aumenti dello spread e dei rendimenti dei titoli pubblici. Nel caso dell’Italia è una pessima notizia dato il livello del nostro debito pubblico, secondo solo alla Grecia tra i Paesi aderenti all’Ue. Nel breve periodo l’impatto dei costi sul debito pubblico sarà limitato alla quota dei rinnovi dei titoli in scadenza, ma non devono essere trascurati anche gli effetti paralleli sui costi degli investimenti privati, che sono una componente essenziale della ripresa economica. La sospensione dei vincoli del Patto di stabilità scade alla fine dell’anno in corso, ma la possibilità di espandere i deficit e i debiti pubblici si è di fatto esaurita.
La dipendenza dalle fonti energetiche e dalle tecnologie, la crescita dell’inflazione e dei tassi di interesse impongono di ripensare le nostre politiche economiche. L’ambientalismo naif che ha pilotato le scelte di politica energetica deve lasciare il posto all’adozione di un piano strategico nazionale finalizzato a sviluppare tutte tecnologiche disponibili e tutte le forme di risparmio energetico, partendo dalla valorizzazione delle risorse interne e dalla scelta delle alleanze funzionali per il raggiungimento degli obiettivi, a partire da quelle con gli altri Paesi europei per aumentare la massa critica degli investimenti.
Il tema del contenimento dell’inflazione non può essere delimitato alle misure di calmierazione dei prezzi con le risorse dello Stato, ma va collocato nell’ambito di una politica dei redditi che si proponga di aumentare la produttività che risulta stagnante da decenni per circa la metà del nostro apparato economico, in particolare nella componente dei servizi. I programmi del Pnrr devono essere finalizzati per questi obiettivi e per aumentare la capacità di attrazione degli investimenti internazionali portandola sulla media dei Paesi Ue.
La crescita della produttività è indispensabile, ma non sarà sufficiente a garantire quella economica generale in assenza di un forte aumento dell’occupazione. Nel nostro Paese ci sono attualmente circa 4 milioni di persone in età di lavoro che ricevono sostegni al reddito dallo Stato e nel contempo ci sono imprese che faticano a trovare manodopera per qualsiasi tipo di profili e di attività. Abbiamo sprecato negli ultimi 10 anni circa 400 miliardi di spesa sociale per sostenere disoccupati, poveri, ceti meno abbienti, o presunti tali, con l’esito veder peggiorati tutti i principali indicatori occupazionali nel mercato del lavoro e di un aumento esponenziale del numero delle persone povere.
La palla al piede del nostro Paese è la deriva parassitaria nell’uso delle risorse disponibili. L’illusione che possa essere ulteriormente coltivata nel futuro prossimo è destinata a naufragare nel giro di pochi mesi.
Inutile negare l’evidenza. I Paesi aderenti all’Ue non sono in grado di affrontare le nuove sfide con istituzioni acefale, prive di una politica estera e di difesa comune e con politiche economiche destinate ad aumentare i livelli di subordinazione sul terreno tecnologico, Nell’ambito nazionale quello che sta avvenendo dovrebbe mettere la parola fine a residui sovranisti e populisti di varia estrazione che hanno caratterizzato buona parte della legislatura a vantaggio di uno sforzo collettivo rivolto a favorire la convergenza su un nucleo condiviso di priorità nazionali. Il costo delle mancate scelte nei prossimi mesi potrebbe determinare conseguenze drammatiche nei prossimi anni.
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