Continua a far parlare di sé la cosiddetta Lettera su Dio che Albert Einstein scrisse il 3 gennaio 1954 su carta intestata dell’Università di Princeton e che nel 2018 è stata venduta all’asta da Christie’s a New York per quasi tre milioni di dollari. In essa il grande fisico sembra ritrattare tanti dei famosi aforismi con cui lungo la sua carriera ha lambito, e in un certo qual modo ammesso, il mistero di Dio.



La missiva, rivolta al filosofo ebreo tedesco Eric Gutkind, esclude totalmente l’esistenza di un Dio personale, classificandola come “espressione e prodotto della debolezza umana” e definendo la Bibbia “collezione di venerabili ma, nonostante tutto, primitive leggende”.

Il rapporto tra Einstein e il divino è stato oggetto di numerose pubblicazioni e vanta una certa letteratura anche nella pubblicistica: è evidente che non può essere questa la sede per chiarificarlo in modo inoppugnabile. Quel che è certo è che le posizioni dello scienziato, già in vita, gli fruttarono l’ostilità ecumenica dei cristiani d’America – cattolici e protestanti – e quella interreligiosa degli ebrei, popolo cui Einstein apparteneva e che gli aveva dato rifugio nella sua fuga dal vecchio continente al tempo dell’ascesa del terzo Reich.



Il credente che muove al genio di Ulm critiche piccate o sorprese è vittima di uno strano complesso che ascriverebbe agli scienziati di tutti i tempi, in quanto a stretto contatto con l’insondabile, un’inevitabile sensibilità religiosa. Il cileno Benjamin Labatut si è incaricato, in un saggio dal sapore narrativo dal titolo emblematico Un verdor terrible tradotto in italiano nel 2020, di mostrare come l’avventura della conoscenza si complica proprio in prossimità dell’insondabile perché richiede la disponibilità del soggetto investigatore a smettere di capire il mondo come lo si è capito fino a quel momento per avventurarsi in una forma di comprensione assolutamente nuova, al punto che – con una certa dose di audacia – si può affermare che la vera scienza che ci introduce alla verità non è la logica razionale, bensì il racconto, la letteratura.



Questo accade perché la logica razionale, di cui si serviva a piene mani Einstein, non contempla – paradossalmente – una delle dimensioni essenziali che il fisico riconosceva alla realtà, ossia il suo “essere nel tempo”. La logica non ha tempo: il suo compito è quello di formalizzare la conoscenza e di astrarla da ogni temporalità. Eppure alcune verità fondamentali della vita, ci insegna l’epistemologia della testimonianza, giungono a noi non attraverso l’aridità di un manuale, ma mediante la complessità di un’esistenza che si fa storia e incontro. Aristotele distingueva chiaramente due forme di conoscenza: una, di tipo logico e formale, che lo Stagirita individuava nello slogan “scire per causas”, l’altra, di tipo vitale e storico, che era riassunta dal motto “scire qua re”. Il processo di conoscenza può procedere fino ad un certo punto “per causas”, e fino a quel punto non può ammettere se non una sorta di deismo impersonale e astratto: nessun Dio potrà mai collocarsi al termine di un’equazione o segnalare la sua presenza nell’aporia di un procedimento matematico.

D’altra parte, la stessa conoscenza per testimonianza su cui si poggia la fede, nel momento in cui essa debba essere valutata nel breve termine, presenta notevoli limiti di credibilità messi lucidamente a fuoco anche nella fatica di Michel Croce del 2019 significativamente intitolata Di chi posso fidarmi.

In entrambi i casi, quello della conoscenza per logica e quello della conoscenza per testimonianza, è la dimensione temporale che spesso risulta non sufficientemente sviluppata, secondo un assioma inaudito per i fisici, ma non per i Greci, per cui con una Verità ci devo convivere per poterla abbracciare, per poterla verificare e far mia. È il tempo che rende vera la scoperta ed è la letteratura – intesa come la storia di una Verità nella mia vita – il sapere più adatto ad esplorarla e a raccontarla.

Del resto è questo l’esito ultimo cui gli studi di Einstein pervenivano: il fatto che la specializzazione del sapere, e la sua parcellizzazione – processo tipico della contemporaneità –, non fosse la risposta adeguata ad un universo che più si complica più interpella l’intera intelligenza umana in tutte le sue dimensioni. Può sembrare una banalità, ma non si arriva a nessuna conoscenza metafisica se, ad un certo punto della conoscenza fisica, non si è disponibili a lasciare il sentiero conosciuto per seguire qualcosa, per dar credito e tempo a qualcuno. Perché se è vero che la conoscenza è sempre un avvenimento, è ancor più vero che tale avvenimento necessità del rischio personale per poter essere accostato e verificato. Sarebbe comodo poter scoprire la vita standosene comodamente nella propria stanza, senza fare i conti con una realtà che incalza e che non si accontenta di formule o principi.

La vera scelta etica del nostro tempo, così come l’essenza di tutta la nostra azione educativa, è quella di provare a vivere, di rischiare su quello che la ragione e l’affezione hanno riconosciuto – anche solo per un attimo – come l’occasione della vita. Quel rischio di cui un giorno lontano, in uno spazio ignoto e in un tempo insondabile, sarà certamente il miglior argomento di conversazione da intavolare con Einstein e con i suoi amici.

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