Ci sono tutti i tempi del dramma nel gesto irrazionale che ha mosso nonno Shmuel Peleg a portare via dall’Italia il piccolo Eitan Biran, scampato lo scorso 23 maggio alla tragedia del Mottarone. C’è il passato, l’ombra di una famiglia che non c’è più, di un dolore che non tramonta e di una ferita che non viene meno. Shmuel con quel passato ci deve convivere, un tempo oscuro portatore di un fenomeno terribile che non esiste in natura, quello della prematura morte di una figlia rispetto al padre, di un nipotino rispetto al nonno. Verso il passato spesso sentiamo di avere un conto aperto e, invece di fermarci a capirlo e a leggerlo, siamo spinti ad agire per superarlo, per ripararlo, per cancellarlo. Il dolore del passato spesso diventa benzina per le scempiaggini del presente.



Ma in questa storia c’è altro, c’è tutto il senso di inadeguatezza per il presente: niente – agli occhi di chi sopravvive – sembra apparire adeguato al bene che Eitan oggi merita, niente sembra corrispondente alla sua altezza. In quest’inadeguatezza c’è evidentemente il senso di colpa, l’ammissione di incapacità per non aver saputo essere stato presente al momento giusto, per non esserci stato quando serviva, per fermare quella funivia. Ora questo senso di colpa diventa appello a non sbagliare più, a non ammettere alcuna sentenza delle autorità competenti, a fidarsi solo di quell’istinto che sa proteggere e che evidentemente tutti gli altri attori coinvolti in questa tragedia non capiscono.



Nel gesto del nonno c’è dunque anche tutto il racconto di un conto aperto con se stessi, di un qualcosa che non ci si riesce a perdonare. È tutto “troppo” in questa storia: la sfiducia verso i parenti rimasti in Italia, il jet privato, la fuga internazionale. Lo sa bene nonno Shmuel, che adesso si accinge a riconsegnare Eitan alle autorità di Tel Aviv per chiudere questa assurda follia che ai suoi occhi “follia” non è. Infatti in questa vicenda c’è anche tanto futuro, tanta attesa di qualcosa che curi ciò che sanguina, che dia un po’ di pace a tutto il dolore vissuto.

È forse questo ciò che i parenti in Italia stavano cercando di dare al piccolo Eitan. È forse questo che Shmuel cercava per i suoi cari e per se stesso. Perché l’uomo, quando arrivo sul confine dell’ignoto, o diventa irrazionale oppure – per dono – incomincia a chiedere la pace. A cercare il Mistero.



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