Con una puntualità quasi ossessiva, i calcoli virtuali dei sondaggi arrivano più volte durante la settimana mentre si attendono le elezioni del 25 settembre. Nella grande confusione nata con la caduta del governo di Mario Draghi, su cui si nutrivano molte speranze, sembra che si sia arrivati alla conclusione di una seconda repubblica realisticamente mai nata. Con un’irritazione palpabile nell’opinione pubblica, anche per i dibattiti che si vedono in televisione e le sconclusionate informazioni quotidiane dei media.



Certo, il 1992 è un anno particolare per l’Italia, con la liquidazione in breve tempo di tutti i partiti di tradizione democratica e la sopravvivenza, giudiziariamente perseguita e decisa, di due formazioni politiche eredi di ideologie antidemocratiche: i post-comunisti, travolti dalla caduta del Muro di Berlino, insieme a una fetta di cattolici collegati al vecchio Pci, e i superstiti del neofascismo trasformato ed edulcorato dal Movimento sociale di Giorgio Almirante.



Ma è il 1994 che riserva il “nuovo”. Non ci fu alcuna riforma costituzionale significativa, né una guerra, né una rivoluzione che potesse definire il passaggio da una repubblica all’altra così come è avvenuto in Francia, quando partendo dal periodo rivoluzionario si è arrivati in quasi due secoli alla Quinta repubblica di Charles De Gaulle, che segnava anche l’epoca della decolonizzazione francese diretta.

Quasi tutte le democrazie classiche hanno avuto assestamenti durati secoli, con anni passati in condizioni difficili, ma alla fine hanno ribadito la loro vocazione, cioè quella del “migliore dei governi democratici quasi sempre imperfetti e spesso sbagliati”; mentre l’Italia, forse per la storia complessa, sembra la più affezionata all’errore continuo.



L’Italia partì con un entusiasmo frenetico e di autoesaltazione falsa e ridondante nel 1994, dopo l’operazione “terra bruciata” della repubblica dei partiti, promettendo innanzitutto  stabilità di governo con una riforma elettorale bipolare. Il risultato fu grottesco: dal 1994 al 2001, con la nuova legge maggioritaria arrivarono in sette anni ben sei governi: Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, Amato e ancora Berlusconi. Un trionfo al contrario, che avrebbe dovuto fare almeno ragionare. Ma il pensiero a volte può diventare pericoloso per alcune attività cerebrali.

Intanto in questa “innovativa” prima repubblica esistevano sempre il codice penale firmato da Alfredo Rocco e Vittorio Emanuele III e la riforma scolastica di ispirazione gentiliana, se si eccettua la riforma della media unica del 1962. Vale la pena di ricordare che Benito Mussolini ricordava che la riforma di Giovanni Gentile era une delle più grandi conquiste del fascismo. Che dire di fronte ai cosiddetti grandi riformatori che stopparono tutte le iniziative che si cercarono di prendere prima del 1992?

Ritornando comunque al tema principale, dopo l’instabilità governativa cronica di quei sette anni, cominciò per l’Italia un periodo di “vacche magre” (documentato inequivocabilmente dai dati facilmente consultabili) in cui il Paese non è più cresciuto se non di decimali (lo 0,9 di media), senza più una struttura industriale di grande portata a causa delle privatizzazioni “fatte a rampazzo” e criticate persino dalla Corte dei Conti.

E poi con la fuga dall’Italia, per tasse e interessi vari, persino di quella “borghesia stracciona”, come la definiva fin dagli anni Sessanta Giorgio Amendola, che non era in grado di essere un’autentica classe dirigente industriale (altro che neocapitalismo!), e che era surclassata, per fortuna del Paese, dalla vivacità e dalla capacità della piccola e media impresa.

Se si fa data dal 1994 e si arriva alla crisi e alle elezioni anticipate del 25 settembre 2022, passando dalla crisi finanziaria del 2008, i sondaggi sembrano insignificanti montagne russe con maggioranze variabili, con interessi di bottega e umori mattutini, con incapacità di visione e una “scarica di balle” sulla realtà attuale e futura del Paese.

Di fronte ai temi della povertà montante, delle disuguaglianze crescenti, della disoccupazione, della chiusura delle fabbriche per il decuplicato costo dell’energia, si parla di altro, ci si barrica dietro a principi di ideologie morte e sepolte, lasciando nell’indifferenza, nell’assenteismo e in uno stato di partecipazione passiva l’opinione pubblica.

In realtà, la verità è che non c’è nessuna repubblica, tanto meno la seconda, ma si è ormai in presenza di una democrazia in profonda crisi che non analizzando più la realtà in evoluzione e non adeguandosi ai grandi cambiamenti, si rifugia qualche volta in logori vestiti di ideologie che sono morte e non riesce più a trovare metodo, capacità di analisi e ideali per risolvere i problemi che una società del tutto nuova presenta giorno dopo giorno. Queste nuove forze sedicenti politiche riusciranno mai a fare un congresso storico, dove si fissano metodi, ideali e obiettivi immediati?

In realtà, forse in tutto il mondo, ma particolarmente in Italia, la democrazia è stata quasi uccisa o è in agonia per lotte di potere e di interessi, senza rendersi conto che i meccanismi di difesa democratica esistevano da tempo e sono sempre stati trascurati, soprattutto in Italia. E in modo paradossale.

È impressionante notare come esista un concetto, una cultura, la sussidiarietà, che è quasi dimenticato nei dibattiti dei politici, ma questa concetto o meglio questa realtà è l’ultima difesa della democrazia, l’ultima barriere per mantenere la coesione e l’organizzazione costruttiva di un Paese.

La sussidiarietà non è stata mai solo un concetto e una pratica attiva che usciva dalla dottrina della Chiesa. L’auto-organizzazione dei cittadini, la crescita dei gruppi sociali, l’associazionismo, la partecipazione alla costruzione di qualsiasi opera innovativa è un fenomeno sociale di cui si trova traccia in tutta la storia delle democrazie che si emancipavano.

Le grandi opere messe in atto dai cattolici facevano quasi una nobile gara con gli avversari massoni nella Milano ottocentesca e persino con il movimento socialista, che in quei tempi ere ancora anarchico. Non era forse una forma di sussidiarietà la “borsa del lavoro”? Erano operai che si tassavano mensilmente per aiutare un compagno licenziato. E se i cattolici intervenivano con opere di carità, con la costruzione di ospedali, di scuole di ogni tipo, con iniziative di aiuto concreto, i massoni come Moisè Loria fondavano l’Umanitaria, una delle sette realtà più importanti di Milano, dove ci si riuniva e si studiava, si andava a scuola e si formavano i migliori tipografi d’Italia nel momento della massima espansione dei giornali. E anche loro con la costruzione di ospedali che spesso erano eccellenze.

È quasi incredibile come in questo periodo di difficoltà crescono le realtà del terzo settore, diventano indispensabili le realtà non profit, si vedono le fila di persone al “pane quotidiano” di origine massonica, si nota il ruolo della grande invenzione cattolica del Banco Alimentare, oppure della realtà commovente delle mense dei francescani.

Mentre nei cosiddetti partiti di questo periodo dove trionfa l’anti-politica, si parla a vanvera e non si fa nulla. Chi riesce a fare cose realmente utili e concrete sono queste realtà che nascono dalla cultura sussidiaria che è connaturata alla coesione, a un grande spirito di fratellanza e di umanità e alla coesione di una società.

Tutto questo è avvenuto mentre una parte importante del cosiddetto terzo settore è stato “cacciato in pensione”.

Morte le ideologie, i partiti e i circoli culturali potevano benissimo adeguarsi alla nuova realtà di cambiamento economico e sociale. Potevano affinare le loro analisi e le loro idee. La politica poteva ugualmente restare “l’arte del tutto”, coordinando e facendo crescere nell’interesse generale le grandi competenze dei vari settori del nuovo sviluppo scientifico.

Il risultato è che tutto il potere delle società è andato a sottomettersi agli interessi della finanza e dei potentati che si riuniscono periodicamente a Davos, paradossale luogo di “congressi mondiali” per curare gli interessi del plurimiliardari.

Con questo tipo di situazione la democrazia ha un destino difficile. Come reagire? Oggi una grande prospettiva potrebbe essere proprio quello di una “rivoluzione sussidiaria”. In altri termini, così come avvenne dopo le riunioni dei socialisti utopisti, delle grandi organizzazioni operaie, del grande movimento ultrasecolare alimentato dalla Chiesa, sarebbe necessario che i protagonisti del terzo settore che oggi si occupano di “fare ed aiutare”, cominciassero a difendere gli interessi dei più deboli, facendo intravedere una prospettiva politica in una società in piena evoluzione.

Nella repubblica dei partiti e della grande partecipazione politica, in una sezione si parlava di tutto: dell’acquedotto della zona e della pace nel mondo. Da lì uscivano militanti di base che conoscevano e si inserivano nella vita del territorio. E poi, con un metodo di selezione, di pratica e di studio si formava una classe dirigente.

Perché tutto questo non dovrebbe diventare anche patrimonio di una realtà di base che aiuta le persone e che interviene costantemente per rimuovere, di fatto, le ingiustizie sociali? Forse sta in questa rivoluzione sussidiaria, che si lascia alle spalle le ideologie, la salvezza della democrazia del futuro.

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