Una delle accuse, forse la più importante, che il Pd ha rivolto al M5s di Conte è che, facendo cadere il governo Draghi, ha regalato il Governo del Paese alle destre.

Si tratta di un rimprovero solo in parte fondato e certamente è un problema per il centrodestra essere considerato la coalizione vincente. Basta, infatti, un deputato e un senatore in meno rispetto alla maggioranza assoluta per produrre due effetti: il primo, di additare il centrodestra come la coalizione che ha perso le elezioni, e il secondo, di puntare ad un’ammucchiata di tutti e tutte per impedire che il Governo del Paese cada in mano alla destra.



La vittoria del centrodestra non è affatto scontata e neppure a portata di mano, e si scontra con difficoltà interne, esterne e internazionali. Cominciamo con queste ultime.

Il problema è, in primo luogo, la leadership, tenendo conto che FdI è al momento il primo partito della coalizione con un considerevole distacco rispetto agli altri due partner, FI e Lega, anzi è più di metà della coalizione stessa. In più è guidato da una donna, Giorgia Meloni, che tutti, compresi i suoi alleati, ingiustificatamente lasciano intendere non essere adatta alla posizione di presidente del Consiglio dei ministri. Su questo punto, lo stesso Berlusconi, anche dopo l’accordo sui collegi uninominali, ancora va cercando di questionare e pone un’ipoteca sulla regola del diritto del partito della coalizione con più voti di indicare il premier.



Ora, che possano esistere delle riserve internazionali su questo esito delle elezioni italiane, non è difficile da immaginare; vero è che, accortamente, la Meloni ha collocato il suo partito sulla sponda atlantica e a favore dell’Ucraina, compreso l’invio delle armi, ma questo non supera del tutto queste preoccupazioni. Da tempo, in America diversi ricercatori liberal si stanno cimentando su studi che fanno riferimento al neofascismo europeo e al centro di questo collocano anche FdI (a mio avviso in modo del tutto infondato).

Su questo versante, peggio della Meloni sta messo Salvini, che dialoga con l’ambasciata russa in Italia, è visto come un politico legato a Putin ed è stato accusato dalla Stampa di avere fatto cadere il governo Draghi, per ingraziarsi ancora di più il leader del Cremlino. Un’interpretazione sulla quale è complicato fornire le prove e che stride con il carattere italiano della caduta del governo Draghi; sarebbe un po’ come dire che il Partito conservatore britannico ha fatto cadere Johnson per fare un favore a Putin.



La Russia è stata un buon partner commerciale, verso cui l’Italia ha avuto una percentuale alta di esportazioni e l’assenza dei turisti russi in Italia si fa ancora sentire. Prima o poi, quando la guerra finirà e chiunque guiderà il nostro Governo, il ripristino di buoni rapporti con la Russia si porrà come una necessità oggettiva. Uno scenario diverso sarebbe il sintomo di una situazione catastrofica ben peggiore di quella attuale segnata dal conflitto armato.

Anche Berlusconi, che è uomo di più mondi, ha provato a parlare con Putin, e anche se è l’intenzione quella che conta, ha avuto la fortuna di poter dire che non gli ha risposto.

Insomma, sembra assodato che l’establishment internazionale non vede con simpatia una vittoria del centrodestra in Italia. Gradirebbe di più altre forze che si battono in modo “politicamente corretto” e che al contempo lasciano a questo establishment di giocare sul territorio italiano tutte le partite che vuole, anche quando queste partite contrastano con gli interessi nazionali.

All’esterno della coalizione di centrodestra si sono messe in moto forze, anche in collegamento con l’establishment di cui sopra, che cercano di screditare le capacità di governo del centrodestra, come se avessero dato delle buone prove della loro capacità di governo, come se avessero bloccato il declino dell’Italia e determinato il rilancio del Paese. Si ascrivono il merito della crescita del Pil del 2021 e del Pnrr; ma sappiamo tutti che non è vero niente e che questi successi, frutti di un effetto rebound e di un governo di unità nazionale, possono risultare vani se non si consolidano con un’azione politica coesa, e questa non la possono promettere certamente gli avversari del centrodestra.

La campagna elettorale, da questo punto di vista, appare destinata a darci altre sorprese; al momento opportuno tornerà il passato di FdI, della Lega e di FI. L’antiberlusconismo, com’è noto, è stato il vero collante contro il centrodestra per circa un ventennio, la legittima pretesa a maggiore autonomia dei territori e delle autonomie locali è stata vista come una politica di separazione contro l’unità, mentre il Paese soffocava nel più bieco centralismo, e, al momento opportuno, ci si accorgerà che avere consegnato il fascismo alla Storia e avere giurato fedeltà e osservanza alla Costituzione non sarà ancora sufficiente.

Per fortuna l’establishment interno come quello internazionale, anche se potente, è proprio minoritario. Tutto questo, però, potrebbe servire proprio a conseguire come risultato minimo l’erosione di quel margine di consenso che assicurerebbe la piena maggioranza del centrodestra. In fondo in passato al centrodestra è successo di peggio. Basti pensare alla caduta dell’ultimo governo Berlusconi e alla formazione del governo Monti, per comprenderlo.

Non è che i tre partiti del centrodestra abbiano solo virtù e non difetti. Anzi, e veniamo così alle difficoltà interne, sembra quasi che i loro limiti siano ricorrenti a partire dalle vicende del 1994.

Siamo in presenza di tre identità che più diverse non potrebbero essere, frutto di esperienze storico-politiche alquanto contrastanti. Berlusconi rappresentava la rottura politica del sistema dei partiti; Fini il difficile abbandono del passato missino; e Bossi l’idea di Miglio di dividere l’Italia in tre.

Questi erano all’origine, anche se oggi appaiono diversi. Berlusconi ha una immagine politica in forte declino per via del suo personalismo; Salvini, cui va attribuito il merito di avere trasformato la Lega in un partito nazionale, sposa la causa sovranista che lo distanzia dai processi di integrazione europea e internazionale; e la Meloni è ancora in mezzo al guado tra nazionalismo e un’idea di Europa poco chiara.

È evidente, poi, che hanno sempre avuto difficoltà a stare insieme: nel 1994, dopo sette mesi, entrarono in crisi e persero le elezioni del 1996, perché disgregati; nel 2001 diedero vita a ben due governi con una crisi in mezzo, perché le frizioni erano sempre all’ordine del giorno; nel 2008 è vero che sconfissero Veltroni, ma furono spazzati via per la poco accorta politica di bilancio fatta di tagli lineari, senza una vera azione anticiclica che limitasse i danni della crisi economica; e dal 2011, nonostante proclamino costantemente di essere una coalizione, non hanno più governato insieme; anzi, si sono mossi separatamente e per i fatti propri.

Che cosa fa sperare che nel 2022 possa andare diversamente? Se ne avesse consapevolezza, il centrodestra ha il migliore programma istituzionale che una coalizione possa avere: FdI propugna il presidenzialismo; la Lega da tempo combatte per un regionalismo maturo; e FI contribuisce con una carica autenticamente europeista della quale ci sarà bisogno per rivedere i Trattati.

Che cosa invece ci fa credere che nel 2022 i tre partiti del centrodestra possano ripetere gli errori del passato? Abbastanza semplice: l’imperizia di combinare le loro idee e soprattutto l’incapacità manifestata nel tempo di imparare l’uno dagli altri. Il centrodestra alla fine potrebbe non farcela ancora una volta proprio per questa inattitudine epigenetica.

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