“La campagna elettorale sta soffrendo del male peggiore, il tatticismo. Il collante è la tattica elettorale dei seggi e la parola d’ordine è quella di non fare vincere le destre” dice al Sussidiario Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo, esperto di regionalismo e sistemi elettorali. Secondo Mangiameli il centrodestra ha le carte in regola per proporre riforme vere, cominciando dalle proposte che distinguono i singoli partiti: il presidenzialismo per FdI, il regionalismo per la Lega, il riferimento europeista per FI.
Lei sul Sussidiario ha già scritto che il centrodestra può coniugare due importanti riforme: presidenzialismo (lato FdI) e regionalismo (lato Lega). Le due cose non sono in contraddizione?
Per l’esattezza sono tre, perché va aggiunta, alle due da lei menzionate, la riforma dell’Europa e la revisione dei Trattati europei. L’Italia deve avere un’idea coerente di Europa e qui tornerebbe comodo il terzo piede del centrodestra, cioè FI, che ha una buona posizione europeista. Quanto, poi, alla possibilità di coniugare presidenzialismo e regionalismo, direi che questo è lo sbocco naturale della situazione istituzionale italiana per uscire da una condizione di stupido centralismo burocratico e frode democratica perpetrata dai partiti politici.
Mettiamo per un attimo da parte il programma europeista e concentriamoci su presidenzialismo e regionalismo.
Il presidenzialismo, con l’elezione diretta del presidente della Repubblica come in Francia, può essere risolutivo nei casi in cui si richiede alla Repubblica una linea unitaria, senza il gioco dei partiti politici. Per contro, un regionalismo maturo e avanzato si esprimerebbe nel valore che si riconoscerebbe alle comunità territoriali e costituirebbe un ottimo bilanciamento del potere presidenziale.
Un bilanciamento senza nessun conflitto?
Le due sfere, quella presidenziale/governativa e quella regionale, sono interferenti in tanti punti e questo è perfettamente normale. Sarebbe richiesta una forte collaborazione tra Stato e Regione, come è stato sperimentato nel caso della pandemia.
Che però ha evidenziato il caos, più che una serena collaborazione.
Attenzione, si partiva da una completa impreparazione rispetto all’evento. Né lo Stato, né le Regioni avevano un’idea chiara su come reagire e gli stessi scienziati (i virologi) non davano indicazioni precise su come rispondere alla malattia. Ricordiamoci, poi, che in Italia non si producevano più mascherine né le valvole dei respiratori. Successivamente, il quadro si è fatto più chiaro e alle misure settecentesche come il lockdown si sono aggiunte altre misure e una produzione interna di dispositivi medici.
E con i vaccini?
Con i vaccini la collaborazione Stato-Regioni si è rivelata efficace. Vorrei anche sottolineare che nella materia concorrente della sanità comanda lo Stato e le Regioni eseguono, ma se lo Stato non sa comandare, le Regioni non possono eseguire bene.
Come arrivare a questo regionalismo virtuoso?
Meglio direi cooperativo. Per farlo non sono necessarie modifiche costituzionali, ma semplicemente adeguamenti legislativi, a cominciare dal federalismo fiscale e dal riordino delle funzioni amministrative e della legislazione delle autonomie locali. Non è questa la sede per entrare nei dettagli.
Il nostro sistema politico appare come l’esercizio del “presidenzialismo di fatto” che fa perno sul ruolo sui generis, post 1992, del presidente della Repubblica, ingigantito dalla debolezza dei partiti. Ma al presidenzialismo vero, mi corregga se sbaglio, non si arriva a costituzione invariata.
Non è esatto parlare di “presidenzialismo di fatto”, perché il nostro presidente della Repubblica è stato pensato sin dall’origine come una figura che regge lo Stato soprattutto nei momenti di crisi. In questo senso, il presidente italiano è diverso dalla Regina d’Inghilterra, e dal presidente federale tedesco che non assolve a funzioni di governo, tutte in mano ai partiti, al Bundestag e al governo federale.
Come andrebbe fatto il presidenzialismo?
Già Antonio Maccanico aveva sottolineato che si poteva passare al presidenzialismo rivedendo la procedura elettiva del presidente della Repubblica e raccordando direttamente il governo al presidente e non più alla fiducia alle camere – o mantenendo questa come supplementare, come in Francia, che non a caso è un modello semipresidenziale.
E la Costituzione?
A mio avviso, qualche modifica costituzionale in più è necessaria, con riferimento ai poteri del parlamento nei confronti dello stesso presidente direttamente eletto; al perimetro della magistratura, per evitare interferenze che possano paralizzare l’azione del governo; alle garanzie costituzionali dei diritti dei cittadini e ai diritti costituzionali delle autonomie e delle regioni.
Per fare il regionalismo bisognerebbe rimodificare i meccanismi del Titolo V?
Il Titolo V è debole soprattutto sul versante della “leale collaborazione” e della partecipazione delle Regioni alle funzioni statali e particolarmente in sede di concertazione legislativa e amministrativa. Ora, senza entrare in dettagli costituzionali come la riforma del senato regionale e il sistema delle conferenze, direi che questo è il versante da rafforzare, piuttosto che il riparto delle competenze, ampiamente disatteso dallo Stato con una certa complicità della giurisprudenza costituzionale. L’altro punto di cui bisogna venire a capo è il federalismo fiscale e la perequazione territoriale, che tocca anche l’uso dei fondi strutturali, il cofinanziamento delle opere e adesso anche la realizzazione del Pnrr.
La cosiddetta autonomia differenziata sembra un gran pantano. Lei non ha il sospetto che 1) sia un vicolo cieco, 2) abbia come possibile esito solo quello di scassare la finanza pubblica?
Mi sono a lungo occupato di autonomia differenziata, vi è anche un mio libro dal titolo Prima che il Nord somigli al Sud. L’autonomia differenziata è un tentativo delle Regioni, soprattutto del Nord, di rincorrere lo Stato centralista. Realizzare un vero regionalismo dovrebbe essere molto di più. Non solo per le Regioni del Nord, ma anche per quelle del Centro e del Sud. Senza di esse non si può fare la riforma dello Stato centralista e non si può progredire tutti insieme
Come?
Occorre consentire alle Regioni più avanzate di fare di più e sostenere le Regioni meno avanzate per raggiungere standard ottimali.
Dunque più libertà per le Regioni virtuose. Ma le altre? Di quale “sostegno” parla? Finanziario? Alimentando gli sprechi?
Guardi, mi rifarei al modello tedesco con cui i Länder occidentali, insieme al governo federale hanno messo quasi in pari i Länder orientali della ex Ddr in meno di vent’anni e invertito la tendenza all’emigrazione da Est verso Ovest.
Lei conosce bene la realtà tedesca. Come è stata fatta quella riforma?
Alla base stava un patto federale che consentiva di valutare le scelte dei Länder orientali e, nel caso, di intervenire per correggerli. Le scelte di fondo, proposte dal governo federale e accolte dai Länder, sono state essenzialmente legate alla logistica, alla viabilità e ai trasporti e alla ricerca. Il resto – lavoro, sanità, istruzione, servizi sociali, ecc. – è venuto da solo.
L’Italia però è un Paese completamente diverso.
Io ho proposto che la materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica diventi una politica attiva dello Stato e delle Regioni. Tale coordinamento servirebbe ad indirizzare le attività delle Regioni sotto standard con la vigilanza tanto dello Stato, quanto delle Regioni più avanzate. Va detto che lo Stato dispone del potere sostitutivo, che può interferire con l’autonomia; ma se lo Stato non sa usare questo potere o lo usa in modo pedestre, come nel caso della sanità calabrese, siamo al punto di partenza.
Il divario territoriale?
Bisognerebbe affrontarlo con strumenti nuovi, come ad esempio un piano di coordinamento territoriale delle Regioni meridionali. La Spagna con quest’ultimo strumento ha realizzato ottimi investimenti e il divario territoriale lo ha risolto quasi del tutto.
Qual è la credibilità e la volontà delle forze in campo per potersi sedere a un tavolo delle riforme? Ne avrebbero i motivi politici?
Le riforme sin qui tentate sono tutte fallite, tranne quella del Titolo V, fatta perché rispondeva ad un assetto necessario per l’economia nell’ambito del mercato interno europeo e in quello del mercato internazionale. Il Paese ha bisogno di riforme? La risposta è sì, ma non vi sono idee forti che animano le forze politiche.
Il Movimento 5 Stelle?
Ha danneggiato il Parlamento.
Renzi?
Voleva una riforma centralista rispetto alle Regioni e rispetto al parlamento e sogna, come Catilina, la trasformazione della Repubblica nel Principato, con l’elezione diretta del primo ministro.
Il Pd?
Non ha una linea in proposito.
E il centrodestra?
Il centrodestra dovrebbe comprendere appieno il valore delle proprie proposte. Sino a quando non compie questa maturazione diventa facile aggredirlo, con l’idea che il presidenzialismo rappresenta l’uomo solo al comando di passata memoria e il regionalismo la volontà di disunire il Paese sino al limite della secessione.
Come se ne esce?
Dovrebbe essere proprio il centrodestra ad approfondire le sue proposte di riforma istituzionale, integrando bene e in modo equilibrato regionalismo e presidenzialismo e collocandole nel quadro dei processi di integrazione europea e internazionale.
In concreto?
Significa un’Europa politica e dei cittadini e una politica internazionale di collaborazione veramente multilaterale e autonoma rispetto alle diverse politiche “imperiali” che al momento imperversano. Su questo terreno le altre forze repubblicane non potrebbero che convergere.
Ipotizziamo che il centrodestra scelga questa strada. Da dove cominciare e come procedere?
Il centrodestra deve superare innanzitutto la paura della delegittimazione. E convincere gli italiani che tanto il regionalismo, quanto il presidenzialismo servono a salvare questo Paese e a rappresentarlo meglio nel contesto europeo e internazionale.
(Federico Ferraù)
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