In dirittura d’arrivo le liste, per i partiti in campagna elettorale è il momento dei programmi. I 15 punti del centrodestra ricalcano le proposte tradizionali di quell’area, dalle infrastrutture (compreso il ponte sullo Stretto di Messina) al presidenzialismo, dalle riduzioni fiscali alla difesa delle imprese al nucleare pulito, con un chiaro aggancio all’atlantismo, all’Occidente e all’Europa. Essendo punti programmatici abbastanza prevedibili, il centrodestra non ha impiegato molto tempo a elaborarli e ha battuto sul tempo lo schieramento opposto. Il Pd invece ha lanciato un’impostazione totalmente diversa: le proposte principali di Enrico Letta sono lo ius scholae, il matrimonio egualitario, la cannabis libera, la legge sul fine vita e naturalmente la “difesa della Costituzione”.



Anche in questo caso, nulla di particolarmente innovativo, se non che la base programmatica principale, le idee che il segretario del Pd lancia come prioritarie non hanno niente a che fare – per esempio – con l’Agenda Draghi, né con le richieste dell’Unione Europea e nemmeno con i capisaldi storici della sinistra come la difesa del lavoro, lo stato sociale, l’aiuto ai bisognosi: tutte cose lasciate in secondo piano e presentate come accessorie. Anzi, se proprio si deve parlare di fisco, Letta ha già fatto intendere che la sua ricetta non contempla tagli alle tasse, semmai una patrimoniale sui ricchi per agevolare i più giovani a imboccare la strada del lavoro. E la politica energetica è piena di distinguo, come per esempio sui rigassificatori, perno delle scelte di Mario Draghi: per Letta essi sono sì necessari, “ma a condizione che costituiscano soluzioni ponte”. Il riformismo perso con l’addio di Calenda viene colmato con gli altolà del “partito del No” della sinistra e con le rivendicazioni libertarie di +Europa, gli ex radicali.



Dunque, si può dire che nei programmi elettorali si confrontano da una parte le proposte per affrontare i problemi reali e dall’altra la richiesta dei nuovi diritti. Il segretario Pd gioca una scommessa pesante e sta già raccogliendo critiche anche all’interno del suo schieramento. Ma dietro il “dirittismo” di Letta si può intravedere una strategia, non un salto nel vuoto. Ed è la caccia al voto dei giovani. Chi andrà alle urne per la prima o la seconda volta è lontanissimo dalla politica: non sa nulla di sistemi elettorali, delle differenze tra partiti, di leader politici, di destra o sinistra. Se provi a spiegarglielo, reagiscono con insofferenza. Però sono sensibili al richiamo dei nuovi diritti, sono favorevoli alla cannabis per tutti e all’amore libero. I loro sono voti che non hanno appartenenze politiche né schieramenti e nel disinteresse collettivo sembrano destinati a ingrossare le file dell’astensionismo. A meno che non vengano intercettati da slogan facili e messaggi elementari che non richiedono competenze particolari, richieste invece a chi s’avventura a discutere di bilancio dello Stato, pensioni, tasse, riforme legislative e via dicendo. Letta guarda a questo “non voto” da trasformare in consenso elettorale, forse l’unico modo per tentare una rimonta.



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