Uno dei luoghi comuni di questa campagna elettorale è l’impegno europeista di determinati partiti e l’irrisione di quanti predicano un recupero di sovranità nazionale per affrontare alcuni problemi che, per via dell’interdipendenza europea, non possono non essere affrontati e che deteriorano la condizione del nostro Paese.



È vero che l’Unione Europea ha concesso all’Italia la quota maggiore del Ngeu e che il governo Draghi sta cercando di portare avanti gli adempimenti del Pnrr, per ricevere le diverse tranche di prestiti e sussidi, ed è altrettanto vero che il prossimo governo, dopo le elezioni, in una qualche misura sarà costretto a seguire l’indirizzo politico già tracciato, ma questo non ci esime dal considerare con realismo politico quanto sta accadendo sul tema europeo.



In primo luogo, è bene precisare che questa Europa, così com’è adesso, è da tempo fragile e vacillante. La Brexit doveva essere il momento giusto per fare la riforma dei Trattati; invece, mettendo la polvere sotto i tappeti europei, il tema è stato rimandato e rimandato ancora. Macron aveva pensato con un appello sull’Europa di assumerne la leadership, una volta uscita di scena la Merkel, però alle elezioni presidenziali e parlamentari si è così tanto indebolito da potere a stento rappresentare gli interessi francesi. La guerra mostra tanto la debolezza francese quanto quella tedesca, dovuta quest’ultima ad un nuovo cancelliere che ha dovuto affrontare al contempo la crisi energetica e un conflitto quasi alle porte.



In queste condizioni, la riforma dei Trattati europei per una più forte integrazione politica è di fatto stata rimandata sine die e il discorso di Ursula von der Leyen sullo stato dell’Unione, di alcuni giorni fa, ne è la prova. Peraltro, è inutile parlare di un nuovo Recovery fund per la questione energetica, perché in queste condizioni il Consiglio europeo e la Commissione non sono in condizione di proporre nuovo debito comune.

Ora, se chiedessimo ai leader italiani che si sentono europeisti perché non affrontano il tema della riforma dei Trattati, molto facilmente li sentiremmo balbettare. Non hanno mai aperto questo tema nel dibattito pubblico italiano e meno ancora in campagna elettorale.

Le riforme europee da fare sono evidenti da tempo e sono state sinora evitate, anzi la situazione si è aggravata già nel 2019 con la revisione del Trattato Mes che ha preso il posto dell’inserimento del fondo Mes nel quadro istituzionale europeo come “Fondo monetario europeo”. Ancora peggiore è la condizione dell’unione bancaria, che doveva sancire una integrazione europea più avanzata, anche ai fini dell’unione dei mercati finanziari, ed invece ha finito con l’essere vittima del metodo intergovernativo esterno all’Unione Europea. La revisione dell’unione economica e monetaria, che soffre da tempo del dualismo di metodo da cui è afflitta l’Ue, è ancora in attesa di una proposta valida; la stessa von der Leyen l’ha annunciata, ma senza dare alcuna indicazione.

Se passiamo alle riforme più propriamente politiche, come la piena responsabilità politica del Parlamento europeo, la parlamentarizzazione del procedimento legislativo, l’inserimento del voto a maggioranza nel Consiglio europeo, la realizzazione di una politica estera e di sicurezza comune, compresa la difesa, autenticamente europee, che sono da sempre il punto debole di questa integrazione, tutte le promesse scritte nei documenti dell’Ue dal 2012, sembrano scomparse dai tavoli europei.

I nostri leader europeisti sanno qualcosa di tutto questo? E se lo sanno perché non ne parlano agli italiani? L’impressione che si ha, e non da oggi, è che sono europeisti, ma non sanno perché. Letta che si sente l’alfiere dell’europeismo, anche se è alleato con forze che non nutrono i suoi stessi sentimenti, dice solo di essere lui l’Europa. Ma se è vero, perché non spiega cosa farebbe lui con l’Unione Europea se vincesse le elezioni?

Non è che gli altri leader siano migliori: Calenda delegherebbe tutto a Draghi e, ovviamente, anche la politica europea, peccato però che Draghi non si senta un delegato di Calenda; anche Berlusconi e Tajani parlano dell’Europa, ma solo per dire che FI è la forza politica che assicura l’europeismo del centrodestra. Che cosa vuol dire? Che difendono l’Ue così com’è, o che sono per la riforma del processo di integrazione? Non si sa. L’unica che dice qualcosa, a questo punto, sembra essere la Meloni, che vuole un’Europa confederale, ma non federale, e che auspica un esercito europeo effettivo. La qual cosa la dice lunga sulla confusione in materia europea di chi dovrebbe assumere, stando ai sondaggi, la guida del prossimo governo. L’Europa ha già da tempo superato la dialettica tipicamente ottocentesca confederazione/federazione; l’Ue è un soggetto molto più complesso e poliedrico, sia nel modo in cui opera con gli Stati membri, sia in quello in cui agisce nel contesto globale; e poi se si vuole un esercito europeo a comando unico, questo è un elemento di forte federalismo.

Gli alfieri dell’europeismo si limitano a irridere le posizioni dei cosiddetti “sovranisti” e in questo sono fortemente sostenuti dai media più potenti del nostro Paese. Questo di tutti gli atteggiamenti è il peggiore e il meno comprensibile, ma sicuramente anche il più perdente. Irridere è sempre un atto di debolezza. Discutere, affrontare il tema e sviscerarlo con argomenti politici e logici seri, sarebbe questo il modo per smontare le tesi “sovraniste”, senza nascondere quel nucleo di verità che esse contengono. Il tema, infatti, nel processo di integrazione europea è, da sempre, quello della sovranità.

Il processo di integrazione è nato come processo di trasferimento della sovranità nazionale in una sovranità sovranazionale comune. Basta riprendere le sentenze della Corte di Giustizia degli anni 60 (Costa c. Enel) e degli anni 70 (Internationale Handesgessellschaft), per comprenderlo. La moneta unica è stata essa stessa una cessione di sovranità importante, ma non è stata accompagnata da una politica economica e da una politica fiscale e corre di continuo il pericolo di entrare in difficoltà, come negli anni della crisi economica.

Nel Parlamento europeo le spinte antieuropeiste, a partire dal 2014, sono oramai una costante crescente. Si può irridere il 40% dei cittadini europei che reclamano atti di esercizio di sovranità autentica?

Durante la crisi economica l’Europa e gli Stati membri, in particolare l’Italia, sono stati in difficoltà, difficoltà che non hanno conosciuto gli Stati Uniti, che pure sono il Paese che ha causato la crisi. Il motivo è semplice. Nell’Unione Europea le istituzioni non potevano fare, per i limiti dei trattati, una politica anticiclica e, per contro, hanno imposto agli Stati membri (e all’Italia, in particolare), di non fare una politica anticiclica, in osservanza dei Trattati. È stato questo doppio blocco, che ci portiamo ancora dietro come un peso, a causare la perdita della ricchezza nazionale. Negli Stati Uniti Obama con un tratto di penna fece approvare una legge (American Recovery and Reinvestment Act) che consentiva già nel febbraio del 2009 di spendere 800 miliardi di dollari. Adesso, di fronte alla pandemia, il piano Biden prevede un impegno di spesa di più del doppio (esattamente 1.900 miliardi di dollari), di fronte al quale il nostro Ngeu con i suoi 850 miliardi di euro è veramente poca cosa. Adesso, sull’energia, mentre l’Europa sembra a corto di idee e persino il price cup sul prezzo del gas non trova consenso, in America, dove il gas e il petrolio non mancano, si stanno preparando altre misure.

La replica a questa comparazione è che l’Ue non è uno Stato federale, mentre gli Usa lo sono. Ma è proprio questo il punto. I presidenti americani esercitano sovranità, le istituzioni europee invece no. Gli Stati membri degli Stati Uniti si avvantaggiano di un governo federale che li rappresenta con una istituzione forte quale è il Senato degli Usa; gli Stati membri dell’Unione Europea, invece, sono costretti a lavorare per i fatti loro alle spalle delle istituzioni europee, se non contro di esse.

È ragionevole che la situazione europea resti così? È ragionevole che i partiti in campagna elettorale non chiedano un mandato agli elettori sulla vicenda europea, indicandone i termini? La dispersione di sovranità, cioè di quel potere che consente di far funzionare i processi decisionali e di affermare il politico, a tutela di interessi e diritti dei cittadini, non può essere a lungo sopportata e si deve risolvere con un’affermazione di potere sovrano che metta fine a questa situazione eccezionale. Questa è in fondo il nucleo minimo delle tesi sovraniste.

Che poi chi rappresenta queste tesi lo risolva con un ritorno alla sovranità nazionale, anziché con un’affermazione della sovranità europea, in un quadro costituzionale democratico e non burocratico – sia consentito dirlo – è tutta responsabilità dei cosiddetti europeisti che di Europa non sanno nulla.

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