Presentarsi di fronte alla platea economica di Cernobbio rappresenta un esame di maturità per tutti i politici, sempre. Figuriamoci in campagna elettorale. Chi era in sala sussurra che all’applausometro si sia imposto di un’incollatura Carlo Calenda. Ma gli occhi di tutti erano puntati sulle performance di Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
Ha fatto notizia che ancora una volta il leader della Lega abbia posto con forza il tema delle ricadute sul nostro sistema produttivo delle sanzioni alla Russia. Enrico Letta lo ha sbrigativamente tacciato di filo-putinismo, la Meloni è parsa più cauta, ha parlato di sfumature, ma ha voluto apparire soprattutto rassicurante sul piano internazionale.
Più che alle imprese di casa nostra è sembrata rivolgersi ai mercati esteri, ha insistito che se l’Italia smettesse di sostenere l’Ucraina non sarebbe un problema per Kiev, ma uno di credibilità per il nostro Paese. Credibilità di cui lei vuole essere garante. Sui contenuti la distanza fra i due leader del centrodestra è parsa piuttosto evidente, anche nella mimica, proprio quando parlava Salvini.
Per la Meloni apparire come un potenziale premier affidabile in sostanziale continuità con Draghi rappresentava un’assoluta priorità. Salvini ha scelto di recitare un altro ruolo, quello di megafono della miriade di piccole e medie imprese manifatturiere che rischiano di finire strangolate dagli effetti del conflitto in Ucraina, in primo luogo dal vertiginoso aumento del prezzo dell’energia. Tanto vertiginoso da rischiare di mettere molte di loro fuori mercato, in assenza di sostegno. Ha usato slides per spiegare le posizioni di un imprenditore in platea, ha insistito sulla necessità che il sistema produttivo venga immediatamente soccorso. O con un intervento europeo, come auspicato da Mattarella, oppure da uno nazionale. Il suo refrain: “Meglio uno scostamento di bilancio di 30 miliardi adesso, che uno da 100 a dicembre”.
Al contrario, la Meloni ha escluso l’idea di ricorrere ora a nuovo indebitamento, in sintonia con il governo Draghi. Vien da chiedersi se si tratti di una posizione tattica, sempre finalizzata a fornire oggi un’immagine rassicurante di sé e del governo prossimo venturo, oppure se sia davvero una convinzione di fondo. Certo, la leader di Fratelli d’Italia è tornata a invocare una rinegoziazione del Pnrr, ricordando come questa sia prevista dalle norme europee che hanno istituito il programma Next Generation Eu. Ma la sponda europea potrebbe non bastare. La coincidenza temporale con la decisione del governo tedesco (di sinistra) di mettere in campo un gigantesco piano nazionale da 65 miliardi per sostenere famiglie e imprese fa capire come sia necessario muoversi rapidamente anche sul piano interno. Il nostro tessuto produttivo, per di più, rischia di più, ricco come è di imprese piccole e piccolissime. Imprese che, se costrette a chiudere dai costi alle stelle, non sarebbero poi più in grado di riaprire.
Il fattore tempo è essenziale, difficile immaginare che si possa attendere che il nuovo governo entri nella pienezza dei suoi poteri, a fine ottobre secondo la migliore delle ipotesi. Salvini si è ritagliato il ruolo del bambino della favola di Andersen che rompe la cappa di omertà e grida che “il re è nudo”. Secondo i principali media è la persona meno indicata a farlo, viste le troppe strizzate d’occhi del recente passato alla Russia putiniana. Il fatto che a denunciarlo è il numero uno del Carroccio, non significa però che il problema sia meno grave. Con una bolletta energetica nazionale più che raddoppiata, da 43 miliardi di euro di importazioni l’anno scorso a oltre 100, come sempre a Cernobbio ha spiegato il ministro Daniele Franco, fare qualcosa per salvare le imprese è un imperativo categorico. Ne va di centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ne va della necessità di evitare la desertificazione della nostra economia.
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