La paura numero uno di Eduardo de Filippo era la terza guerra mondiale. Un timore talmente forte da indurlo a scrivere una commedia in cui al protagonista, angosciato dalla paura, veniva fatto crede che la guerra, la terza, era veramente scoppiata. A quel punto tutto andava in ordine. La paura, che blocca e intimorisce, si scioglieva e si ricominciava a vivere perché una paura era passata ed un fatto era accaduto.
Se oggi si potesse esorcizzare la prima paura di tanti nel Mezzogiorno il titolo giusto, su tutti i siti, sarebbe che è scoppiata la guerra alla criminalità organizzata. Non una guerra. Ma la guerra. Militare, sociale ed economica.
A quel punto nessuno avrebbe più scuse per non schierarsi e si saprebbe con chiarezza chi è il nemico e chi gli eroi veri. Le bombe a Foggia contro i testimoni coraggiosi risuonano ancora nell’aria richiamando l’attenzione di un Paese distratto che tende a dare il proprio sostegno anche mediatico a figuri da operetta che, scimmiottano pericolosamente parenti al 41bis, inneggiano alla camorra, alla mafia o alla ‘ndrangheta durante concerti e dirette social o ospiti di programmi televisivi, confondendo il diritto al cattivo gusto con un’intollerabile attività di intelligenza con il nemico che, se guerra fosse, sarebbe punita a prescindere.
La slavina che i social hanno innestato nella nostra società porta a confondere il consenso con la popolarità, le cose giuste con quelle più condivise e le vite di chi si è speso per le battaglie giuste con quelle di chi ha più séguito. Una confusione che ha sovvertito molti meccanismi. A nessuno per troppo tempo è interessato cosa si dicesse ma solo quanti condividevano determinati contenuti. La selezione delle agende è stata ed è organizzata sul numero di seguaci e non su quel che si deve ed è giusto fare. Una slavina che ha coperto con montagne di like il merito e il buon senso e che ha promosso personaggi e personalità che mai, in un contesto corretto sul piano dei valori, avrebbero avuto spazio o visibilità.
La tentazione di dare credito a questa ondata di melma che trasborda dai social ed arriva nei media tradizionali ha contagiato anche la politica e l’economia. Conta poco cosa fai e molto quanti lo condividono. Rispondere è complesso. Non sempre si ha il coraggio di mettersi dalla parte giusta temendo che il consenso che verrà a mancare possa essere sopperito dalla capacità di aver ragione nel tempo.
E così molte delle candidature alle elezioni di questi anni sono nate su piattaforme social più che sulla storia dei candidati. Molte imprese hanno puntato sulla presenza social più che sulla bontà dei prodotti. Un meccanismo che, eliminando il merito e le competenze, ha promosso anche chi, con lo stesso meccanismo, ha diffuso contenuti inneggianti alla criminalità organizzata guadagnandosi inviti e credibilità, con abomini di pensiero deviato e criminale spacciati per “opinione”. Se fossimo in guerra, vera, tutto ciò non accadrebbe. A nessuno in guerra è lecito inneggiare al nemico o a fare allusioni benevole.
Se questa guerra deve essere condotta perché serve al Paese, si deve ripartire dal dare forza e coraggio nelle scelte a chi ha combattuto su diversi fronti, spesso in modo solitario, per dare voce e portare alla luce i meccanismi del nemico, indicandolo, dandogli una faccia o mettendolo in galera. Senza temere di scadere nel retorico, che in guerra serve, ma con la consapevolezza che la testimonianza di chi ha coraggio e l’esempio contano. Gratteri, Cafiero De Rhao, Cantone, Maresca e tanti altri magistrati da una parte, i clan dall’altra. Formigli, Santoro, Ruotolo, Borrelli con tanti altri giornalisti da un lato e i neo melodici di camorra dall’altra. Libera, le associazioni anticamorra, i preti di frontiera ed antimafia da una parte ed i fiancheggiatori da un’altra.
Ora uno dei buoni, il giornalista Sandro Ruotolo, ha accettato a dare un volto ed una voce in Parlamento da Napoli a chi questa guerra la combatte in silenzio in attesa sa che venga dichiarata senza se e senza ma da tutto lo Stato e da tutto il Paese.
È un bene che si scelga di combattere e che si scelga il merito di una storia e non si contino i follower archiviando, almeno nelle premesse, le tentazioni consociative che vorrebbero pacificare il Mezzogiorno abbassando il livello del conflitto con i sistemi criminali. Promuovere un giornalista sotto scorta, perché minacciato dai boss, a ruolo di candidato al Senato a Napoli, invece che un qualsiasi urlatore di onestà senza storia o un raccattatore seriale di consensi in cambio di favori, è il segnale che un pezzo della classe dirigente inizia ad allontanarsi dalla bolla socialmediatica almeno quanto si allontana dai politicanti da marciapiede, cercando di fare la cosa giusta in modo coraggioso. Una scelta che può essere un avvio di un circolo virtuoso fatto di scelte e di donne e uomini da valutare nel merito e nelle competenze, di storie giuste da contrapporre a storie sbagliate.
Ora non resta che il difficile, per esorcizzare le paure di chi vive in terre di camorra e dire con chiarezza che è guerra. Vera e senza compromessi, al primo male, al primo cancro, alla prima paura che ancora paralizza troppe terre e troppe vite. Per dare a tutti la netta sensazione che schierarsi non è una facoltà o una opinione ma un dovere, se volgiamo superare le nostre paure e offrire al Mezzogiorno una speranza.