La battaglia elettorale viene presentata all’estero come una contrapposizione fra detrattori della Cina e filocinesi. In realtà tutti i candidati alle presidenziali di Taiwan di sabato 13 gennaio vogliono che il Paese, riconosciuto di fatto, anche se molto spesso non di diritto, dalla comunità internazionale, resti autonomo, con sue istituzioni, e non torni a essere una provincia di Pechino come vorrebbe Xi Jinping. Solo che Lai Ching-te, del Partito progressista democratico (PPD), lo stesso della presidente uscente Tsai Ing-wen, vuole mantenere più degli altri le distanze dal Dragone, mentre il suo principale avversario, Hou Yu-ih, del Kuomintang (KMT), il partito che fu di Chang Kai-shek, è molto più dialogante. Con i due principali sfidanti, il primo favorito di qualche punto nei sondaggi, c’è poi Ko Wen-je, ex sindaco di Taipei, che per il momento sembra godere di meno credito nell’elettorato.



Il dibattito elettorale, ci spiega da Taiwan Massimo Introvigne, sociologo, fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, è abbastanza sereno, nonostante i taiwanesi debbano scegliere, attraverso il loro nuovo presidente, come rapportarsi con la Cina popolare, che da sempre proclama la sua volontà di riprendersi l’unico territorio rimasto fuori dalla rivoluzione di Mao Tse Tung e mantenutosi di fatto indipendente da quel momento. I venti di guerra, d’altra parte, spirano da anni, ma per ora non hanno portato a un conflitto vero, alla temuta invasione da parte cinese. Pechino ha fatto capire che preferisce il Kuomintang, ma questa presa di posizione può essere un boomerang per Hou Yu-ih: essere considerato eccessivamente amico della Cina rischia di alienargli consensi in favore di Lai Ching-te.



Qual è l’importanza delle elezioni presidenziali a Taiwan e come possono cambiare i rapporti con la Cina?

Le elezioni sono un puzzle di cui anche i taiwanesi tendenzialmente capiscono poco. Dire che il candidato del Kuomintang è il candidato di Pechino significa dare une versione un po’ troppo semplificata. Certamente la Cina popolare preferisce il Kuomintang, che ha una tradizione non antichissima, ma di qualche decennio, di appeasement e buone relazioni con Pechino. Proprio in virtù di questi buoni rapporti i rischi di invasione sarebbero meno rilevanti. La versione dell’attuale governo, naturalmente, è quella contraria e cioè che le buone relazioni con i cinesi degli attuali oppositori favorirebbero l’invasione. Gran parte, però, è propaganda elettorale: nessuno vuole la riunificazione con la Cina, la discussione è su come evitare di essere invasi, se con una politica di sorrisi e collaborazione economica o con una contrapposizione dura e di chiamata agli alleati, soprattutto gli Usa, per essere difesi.



La Cina, comunque, come presidente preferirebbe di gran lunga Ho Yu-in?

Ci sono all’estero delle iper-semplificazioni, ma non è falso dire che la Cina abbia una preferenza. Credo comunque che i piani di Xi Jinping su Taiwan, che nessuno conosce veramente a fondo, prescindano totalmente dal risultato elettorale.

Paradossalmente, quindi, si può dire che Pechino è interessata relativamente al risultato delle elezioni?

La Cina è interessata a tutto quello che riguarda Taiwan e ha espresso, secondo me un po’ maldestramente, una sua preferenza. Lo ha fatto apertamente e questo danneggia il candidato del Kuomintang. Pur tuttavia nelle elezioni non vi è nulla di decisivo per la politica cinese su Taiwan. I cinesi i loro tempi e le loro strategie li pensano a prescindere da chi governi a Taiwan, anche se non vogliono avere dei falchi troppo amici degli Stati Uniti.

Com’è il clima delle elezioni? Tra la gente c’è una preoccupazione vera per un’eventuale guerra con la Cina popolare?

Non mi sembra che ci sia tanta agitazione. C’è stata un po’ di preoccupazione nei giorni scorsi perché il ministero della Difesa ha mandato su tutti i telefonini un allarme missile. In realtà hanno tradotto, soprattutto in inglese, come missile quello che era un satellite cinese, pare diretto in Vietnam, che avrebbe violato lo spazio aereo di Taiwan. Questo incidente è stato attribuito dall’opposizione al governo, dicendo che vuole alimentare l’ostilità nei confronti della Cina. L’esecutivo, invece, ha attribuito questa sorte di inganno dei radar ai cinesi, per creare un clima di timore. Anche se nei primi minuti sembrava un allarme serio alla fine è stato un piccolo incidente. La campagna elettorale mi sembra pacifica: la propaganda, come nelle vecchie elezioni italiane di 50 anni fa, in gran parte è affidata a camion che girano con megafoni per gridare slogan a favore dei candidati. Ma tutto si svolge ordinatamente. Il tema della pace è molto agitato, soprattutto dal Kuomintang, che sostiene di poterla assicurare evitando provocazioni nei confronti della Cina.

Nonostante il pericolo della guerra rimanga sullo sfondo nel Paese non c’è tensione in vista del voto?

È un Paese che già diverse volte ha vissuto una democrazia dell’alternanza, con il passaggio dal Kuomintang ai liberali, ormai queste transizioni sono ordinarie, non c’è pericolo di svolte autoritarie o di interventi cinesi. Il partito di governo alza un po’ più i toni nei confronti della Cina, che drammatizza dichiarazioni che non sono così drammatiche.

Il discorso di inizio anno di Xi Jinping, nel quale sembra aver rivendicato con un po’ più di determinazione del solito Taiwan come provincia cinese, come è stato accolto? Viene giudicato una svolta o in linea con tutto quello che è dichiarato dai cinesi negli ultimi anni?

È stato commentato come un discorso sgradevole, ma non come un preannuncio di guerra: questi discorsi Xi li tiene periodicamente, così ha fatto pure al Congresso del Partito. Qualche commentatore, tuttavia, ha ricordato che anche Putin faceva discorsi sull’Ucraina che non venivano presi troppo sul serio, mentre poi è passato dalle parole ai fatti. È stato visto come un discorso a orologeria, arrivato nel momento delle elezioni. Sul voto la Cina ha una strategia, che è quella di dire: “Se votate l’attuale partito di governo i rischi per la pace e per la collaborazione economica saranno maggiori”. Ma questa è una strategia pericolosa per Pechino, perché permette all’esecutivo di Taiwan di dire che chi vota per l’opposizione vota per Xi Jinping. Se Xi dà la sua benedizione a un partito è un po’ un “bacio della morte”.

Il terzo candidato, in questo contesto, conta qualcosa? Ha delle chance di vittoria o se la giocano solo i primi due?

È un personaggio interessante. Sta visitando le comunità religiose. Non so se anche quelle dei cristiani, che peraltro sono una minoranza, ma sicuramente è andato nelle principali comunità buddiste e taoiste. È stato un buon sindaco di Taipei ed è un candidato che attira le simpatie dei giovani. Si presenta come il candidato che porta una ventata di novità rispetto agli altri partiti, che sono vecchi. Credo non abbia possibilità di vincere, ma non è chiarissimo a chi porterà via i voti. L’accusa che viene fatta circolare, che a occhio non sembra vera, è che anche il terzo candidato abbia una qualche spinta sui social da parte dei cinesi. Non perché sia filocinese, non lo è per nulla, ma perché potrebbe portare via voti al partito di governo.

(Paolo Rossetti)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI