Il voto di Milano è naturalmente presentato come un test con ripercussioni immediate sul piano nazionale. È non solo la città più importante, ma è anche l’unica, tra i capoluoghi di Regione al voto, a essere di centrodestra e dove Berlusconi misura la sua popolarità dopo gli attacchi subiti, il Pd la capacità di recupero e Fini il suo “valore aggiunto” passando al Terzo Polo. Eppure è proprio qui che i tre partiti protagonisti hanno compiuto i propri più evidenti errori di posizionamento. Il finale infiammato è stata la conseguenza da un lato del voler recuperare l’area del non voto e di ridimensionare un astensionismo minaccioso, e dall’altro di cercare di rimediare a errori compiuti e meglio riposizionare le proprie liste.
Cominciamo dal Pdl. Colpisce come di fronte alla scissione di Fini e dovendo fronteggiare il tentativo di un insidioso attacco sulla sua “sinistra” (ovvero l’elettorato moderato di centro) si è invece spostato a destra dando l’impressione di essere una sorta di conglomerato tra Destra del vecchio Pli e Movimento Sociale. Alla base c’era il fatto che Gianfranco Fini sin dall’estate era ricorso al “richiamo della foresta”, all’ammutinamento nei confronti di Berlusconi in nome di una identità perduta nella confluenza nel Pdl.
Che tra fuoriuscite, tentennamenti e ripensamenti nell’area ex missina in seno al Pdl si sia dato spazio a una marcatura a uomo anche scambiandosi reciprocamente – tra Fini ed ex colonnelli – accuse di tradimento e richiami alla coerenza e alla propria storia è del tutto naturale. Ma era un capitolo che andava chiuso con la “conta” sulla fiducia in dicembre e comunque è stato sbagliato trasferire questo schema di caccia al militante in caccia all’elettore. A Milano il Pdl doveva recuperare al centro e non nell’ex Msi. Lo sbandamento politico a destra del Pdl più dannoso è stato indubbiamente l’attacco a Tremonti “socialista” (coinvolgendo così gli ex Psi che stanno con Berlusconi e votano Letizia Moratti). Si è agitato un rilancio dello “spirito del ’94” tutto, appunto, destra liberale e missini ignorando il fatto che la vittoria contro Occhetto fu ottenuta da Berlusconi soprattutto grazie all’elettorato democristiano e socialista. All’attacco a Tremonti si sono poi aggiunte inopportune contestazioni della Moratti, dando l’impressione che nel Pdl – tra i “fedelissimi” di Berlusconi – stesse prevalendo uno spirito di “duri e puri” imperniato sulla categoria dell’“epurazione” di partito che è l’esatto contrario dell’“allargamento” ovvero della ricerca del consenso elettorale. La cacciata degli “infedeli” è un modulo elettorale inedito. Contestare l’estrema sinistra da posizioni riformiste ha un senso e un effetto, farlo da posizioni di destra ne ha un altro e – soprattutto a Milano – è tempo perso.
A questo errore si è visto porre rimedio in due modi nel centro-destra. In primo luogo ne ha approfittato la Lega, che si è lasciata volentieri scavalcare a destra dal Pdl e ha assunto una posizione più attenta all’elettorato moderato e anche dell’ex pentapartito. Ha “incassato” l’attribuzione di Tremonti che a Milano non è una personalità così impopolare come crede Galan e, da parte sua, Bossi si è così potuto presentare ai milanesi come più pacato, rassicurante e persino più vicino a Napolitano.
A sua volta Letizia Moratti ha accentuato l’attenzione verso la Milano non di estrema destra, ha valorizzato la collaborazione di Tremonti e puntato a quel che doveva essere il principale cavallo di battaglia del Pdl e cioè il ritorno di una stagione competitiva di “grandi progetti” e di internazionalizzazione sulla scìa dell’Expo.
E quindi nella fase conclusiva il Sindaco ha sottolineato, con iniziative fatte con Frattini e Sacconi, il valore della tradizione dei sindaci socialisti. È proprio sul tema della sinistra riformista al governo della città che è segnata la linea di demarcazione rispetto all’attuale leadership della sinistra milanese e al suo candidato.
Il caso Pisapia infatti non è quello della “zona grigia” dell’estremismo degli anni Settanta. Il caso Pisapia è quello del dalemismo tirato fuori da Mani Pulite. Si tratta cioè del rapporto “disturbato” che la sinistra milanese ha ancora oggi con la sinistra “reale” e cioè il fatto che non solo la sinistra antagonista, ma lo stesso Pd rifiuta ogni coinvolgimento con la storia della sinistra che ha governato Milano. Vale ancora nel Pd il motto di Occhetto che nel 1993 sentenziò: “A Milano Craxi aveva i suoi amici, io i miei nemici”. E chi erano i “nemici” di Occhetto? Essi avevano (e hanno) nome e cognome. Si chiamano “amici di Giorgio Napolitano”. Milano dalla metà degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta è stata governata dagli amici di Bettino Craxi insieme agli amici di Giorgio Napolitano. Lo sbilanciamento della sinistra milanese è rappresentato dal fatto che Pisapia (al contrario della Moratti) quell’esperienza di sinistra riformista di governo cittadino rifiuta e condanna in blocco. Il Pd va così al voto a Milano espellendo riformismo socialista, comunista e cattolico e al motto di “Nessun nemico a sinistra”. È proprio su questo punto che va sottolineato il richiamo di Napolitano contro la sinistra che non è un’alternativa credibile.
Infine c’è il “pasticcio Cacciari”. Il Terzo Polo è partito bene avendo a Milano tutte le condizioni di una buona affermazione del voto centrista determinate da un lato, a sinistra, dalla vittoria del candidato di Vendola e, dall’altro, dallo spostamento a destra del Pdl tutto preso dalla rincorsa dei voti missini. Il suo candidato sindaco, Manfredi Palmeri, è un giovane stimato, ha fatto il Presidente del Consiglio comunale senza essere mai criticato (salvo le ovvie polemiche finali sul passaggio con Fini). Ma è difficile chiedere voti senza dire per che cosa fare e dove andare. Chiedere il voto per il 15 maggio senza rispondere alla domanda su che cosa si farà il 16 maggio è una posizione un po’ azzoppata. E cioè proprio nel momento in cui il Terzo Polo sarebbe determinante nel caso di provocare il ballottaggio, esso rischia di uscire di scena ovvero di essere stretto nell’alternativa tra voto inutile o voto gregario.
È a questo punto che abbiamo la soluzione teorizzata da Cacciari. Palmeri in caso di ballottaggio dovrebbe lanciare una piattaforma, unilaterale e non negoziabile, di alcuni punti irrinunciabili più, precisa Cacciari, la “governance” (in italiano: i posti). E se Pisapia accetta, avrà il voto. Una sorta di “Ok il prezzo è giusto”. Se questa era la prospettiva finale, la campagna di Manfredi andava però impostata diversamente evidenziando già i “punti irrinunciabili” e evitando la scena del “coniglio tirato fuori dal cappello” ad urne chiuse.
Un gran pasticcio. Proprio Cacciari aveva infatti ritenuto Pisapia la peggiore scelta per la sinistra e quindi dopo la sua vittoria alle primarie aveva cercato di convincere il Pd che era persino meglio votare l’ex sindaco berlusconiano Albertini. E ora in nome dell’antiberlusconismo spiega che va bene anche l’inaffidabile Pisapia.
Il ballottaggio rischia così di essere il caos per il Terzo Polo. Se Cacciari e i finiani hanno già espresso la propensione per Pisapia, Casini al contrario si è già pronunciato per il rifiuto di indicazione e una terza area non esclude l’appoggio alla Moratti in coerenza con il fatto che l’Udc ha collaborato con il Pdl per tutta la passata legislatura.
Vedremo quindi lunedì sera quanto sia stato lungimirante per il Pd spostarsi a sinistra, per il Pdl spostarsi a destra e per il Terzo Polo essere una variante dell’offerta antiberlusconiana. E in che misura di tutto ciò si sarà avvantaggiato Umberto Bossi.