Mancano pochi giorni al voto in 1.349 comuni, compresi 6 capoluoghi di regione (Bologna, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste) e 20 capoluoghi di provincia. La campagna elettorale è in pieno svolgimento e i partiti, ovviamente, cercano di attrarre consensi e soprattutto di convincere chi è ancora tentato dall’astensionismo. Appelli e argomentazioni varie sono rivolte ai gruppi più diversi di elettori, ma non mi sembra che i candidati prestino attenzione al voto dei cittadini dell’Unione Europea residenti in Italia.
In effetti, l’esistenza della norma che attribuisce ad “ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino” il diritto di voto e di eleggibilità “alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato” (art. 22 Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, Tfue) è molto spesso misconosciuta, nonostante sia stata introdotta quasi 25 anni fa: è con il Trattato di Maastricht del 1992 che ne avviene la consacrazione a livello di diritto primario Ue, ancora oggi vigente nel ricordato art. 22 Tfue e nell’art. 40 della Carta dei diritti fondamentali.
La genesi di tale disposizione va rinvenuta nell’impegno del governo italiano, che per vent’anni si batté in sede comunitaria al fine di ottenere l’estensione geografica del diritto di voto (e anche di eleggibilità, salvo per le funzioni di sindaco e di vicesindaco); e tale impegno fu nobile, tenuto conto del numero di italiani emigrati negli anni 50 e 60 del Novecento ed ormai integrati negli altri Paesi dell’allora Comunità europea.
Fu Giulio Andreotti, nel corso del Vertice dei capi di Stato e di governo di Parigi dell’ottobre 1972, che formulò per primo la proposta di concedere il voto ai cittadini europei residenti in Stati diversi da quello di origine; e fu Aldo Moro, nel Vertice di Parigi del dicembre 1974, ad infondere un robusto impulso al riguardo; e, ancora, fu Bettino Craxi a sollecitare l’avvio dei lavori volti a concretizzare l’impegno, nel corso del Consiglio europeo di Fontainebleau del giugno 1984.
E allora? Tanto impegno per nulla? Per capire meglio, bisogna rifarsi alla direttiva 19 dicembre 1994, n. 94/80/CE, che stabilisce appunto le modalità di esercizio del diritto di voto e di eleggibilità, e lascia agli Stati membri la scelta delle procedure, prevedendo sia l’iscrizione nelle liste aggiunte su richiesta dell’interessato sia quella d’ufficio: alternativa necessaria e determinata dalla diversità dei sistemi elettorali che la direttiva non ha inteso armonizzare, volendo soltanto eliminare il requisito della cittadinanza nazionale. Tuttavia, il par. 3 dell’art. 7 della direttiva 94/80 non mi sembra affatto neutro sul sistema da adottare, poiché, opportunamente, sancisce che, negli Stati membri dove il voto non è obbligatorio (come in Italia), è possibile prevedere l’iscrizione d’ufficio nelle liste elettorali a seguito dell’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente.
Tuttavia, in sede di recepimento della direttiva nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 12 aprile 1996 n.197, il governo Dini, primo esecutivo “tecnico” della storia repubblicana, composto da personalità svincolate dall’appartenenza a partiti, optò per l’iscrizione su richiesta (art. 13, atto n. 1882-B, presentato in seconda lettura alla Camera il 29 novembre 1995).
La scelta venne ratificata in Parlamento dalla maggioranza che sosteneva quel governo, comprendente buona parte del centrosinistra (Pds, Ppi, Patto Segni, Pri, Alleanza democratica, Svp, Union Valdôtaine) e con l’appoggio, determinante, della Lega Nord. Né risulta sia stata contestata dalle opposizioni (FI, An, Ccd, Lista Pannella, Federalisti liberaldemocratici, Rifondazione comunista), salvo la bocciatura, nella seduta del 17 gennaio 1996, dell’emendamento soppressivo dell’on. Tremaglia, che lamentava l’attribuzione, con legge ordinaria, del voto amministrativo ai cittadini dell’Unione, mentre per il voto alle elezioni politiche dei cittadini italiani all’estero si ipotizzava la necessità di una legge di revisione costituzionale.
Nei principi e criteri della delega, la legge stabilì, all’art. 11, che il cittadino Ue residente in Italia, per esercitare il diritto di voto, dovesse presentare al comune di residenza una domanda di iscrizione alla lista aggiunta.
Il decreto legislativo del 1996 – che è la normativa attualmente vigente – fu adottato, in gran fretta, perché il termine per il recepimento era scaduto e la Commissione europea minacciava procedure di infrazione. L’adozione intervenne, in articulo mortis della XII legislatura, appena nove giorni prima delle elezioni politiche del 21 aprile 1996.
Il bilancio del funzionamento di questo impianto normativo è desolante: al 30 giugno 2021, ultima rilevazione semestrale disponibile, risultavano iscritti alle liste aggiunte, tenute dai comuni dell’intero territorio italiano, soltanto 188.036 cittadini Ue, pari al 15,99% del bacino potenziale, corrispondente ad 1.176.000 cittadini maggiorenni. Segno evidente, a mio parere, che, a prescindere da una probabile ignorantia legis, il sistema così congegnato, insieme alla resistenza corporativa del personale politico locale, non ha giovato ad un’efficace applicazione delle norme. Soltanto il 1° luglio scorso, parte delle forze che appoggiano il governo Draghi ha finalmente preso l’iniziativa di modificare il sistema (proposta di legge Magi e al., atto Camera n. 3189), prevedendo l’iscrizione d’ufficio nella lista aggiunta, contestualmente all’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente nel comune.
La modalità dell’iscrizione su richiesta, insieme all’assenza di puntuali informazioni su tale possibilità, unitamente alla riluttanza dei cittadini dell’Unione residenti in Italia ad iscriversi – sintomo, forse, di un loro scarso radicamento nella comunità ospitante o di una mancanza di identificazione con l’offerta politica, se non pure di un chiaro disinteresse – hanno finora impedito l’inveramento del diritto di voto sancito a Maastricht nel 1992, con tanto impegno italiano.
Sotto il profilo politico si è così prodotto un grave deficit democratico, derivante dalla mancata partecipazione al voto amministrativo di centinaia di migliaia di cittadini appartenenti a Stati membri dell’Unione, che hanno scelto di risiedere in Italia. A quando il rimedio?
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