L’annuncio della crisi di governo è arrivato inaspettato: all’indomani del voto parlamentare che dà il via libera alla Tav – risparmiamo qui i dettagli- e della fiducia accordata al secondo decreto sulla Sicurezza (sia pure con le prescrizioni del Capo dello Stato). Dunque, due provvedimenti che vanno nella linea tracciata da Salvini che si sarebbe potuto supporre soddisfatto dei risultati raggiunti.



E invece è proprio il capo della Lega a chiedere al premier Conte di togliere il disturbo: preferibilmente rassegnando il mandato nelle mani del Presidente della Repubblica, in subordine presentandosi alle Camere per verificare la sopravvivenza o meno della maggioranza (ipotesi prescelta dal Premier che in questo modo intende mettere il Capitano di fronte alle conseguenze delle sue scelte).



Inutile scervellarsi su che cosa accadrà perché lo vedremo tutti nei prossimi giorni. La data del voto – ottobre, novembre, addirittura il prossimo anno? – dipenderà, sì, dalle volontà dei protagonisti, ma sarà soprattutto condizionata dai tempi e dalle procedure che sovrintendono a questo genere di decisioni. Se nel mezzo ci sarà anche lo spazio per un Governo elettorale, lo sapremo presto.

Quello che è certo è che l’ipotesi a oggi più accreditata (e a quanto pare perseguita dalla Lega) – le urne in autunno – vedrebbe sommarsi nelle stesse settimane la battaglia elettorale e la manovra di bilancio. La prima combattuta senza esclusione di colpi per catturare consenso, la seconda indispensabile e necessaria per mantener fede agli impegni con l’Europa e non offendere i mercati.



Una cosa, cioè, l’esatto contrario dell’altra: da una parte, secondo lo schema che abbiamo imparato a conoscere, l’irresponsabilità fatta programma; dall’altra, un programma fatto di responsabilità. E sarà per questo salutare che le compagini chiamate a svolgere i due compiti siano differenti: i partiti nell’arena politica, un esecutivo del Presidente per la sicurezza dei conti.

È interessante comunque osservare che il leader della Lega ha deciso di dare la scossa all’esecutivo di cui fa parte il giorno dopo aver incontrato per la seconda volta al Viminale i responsabili di oltre quaranta organizzazioni rappresentative e averne sollecitato i suggerimenti – esattamente come Conte e Di Maio in tre appuntamenti precedenti – per la ripartenza del Paese. A parte qualche piccola e inevitabile differenza, i corpi intermedi convocati e ascoltati hanno convenuto su tre punti chiave che possono davvero funzionare da riferimento per una politica che voglia indirizzarsi alla crescita dopo aver indugiato sui temi del contratto mutuati dai programmi elettorali: forse atti dovuti, ma utili a tutto tranne che a creare sviluppo.

I tre punti – e su queste pagine ne abbiamo già dato conto – sono il taglio del cuneo fiscale per lasciare più soldi in tasca ai lavoratori e sostenere per questa via consumi e domanda interna, l’apertura di tutti cantieri pronti a partire per dotare il Paese di infrastrutture degne della seconda manifattura d’Europa, la definizione di un salario minimo che discenda dalla contrattazione collettiva.

Una così piena convergenza su temi delicati e sensibili per decine di milioni di soggetti rappresentati – imprese di ogni tipo e i loro dipendenti – non si era mai vista prima d’ora. E sarebbe un peccato non tenerne conto anche in campagna elettorale: non approfittare di questa larga condivisione per impegnarsi a restituire forza e fiducia a un Paese che lo merita.