In Calabria si voterà in autunno. Può darsi che prima delle elezioni regionali di ottobre ci siano nuovi terremoti giudiziari. È pensiero comune, date le premesse.

Giù, tra il Pollino e lo Stretto di Messina, la magistratura lavora a ciclo continuo. Nell’inchiesta “Farmabusiness”, coordinata dalla Dda di Catanzaro, è finito l’ex presidente del Consiglio regionale calabrese, Domenico Tallini (Forza Italia), non più agli arresti domiciliari. Nella parallela “Alibante”, in mano alla stessa Dda, risulta coinvolto l’assessore regionale al Bilancio, Francesco Talarico (Udc). Presidente dal 2014 al 2020, Mario Oliverio (Pd) non venne ricandidato al vertice della Regione per causa del procedimento “Lande desolate”, aperto dai magistrati catanzaresi. Oliverio fu infine assolto, a conclusione del rito abbreviato, “perché il fatto non sussiste”. Il Riesame di Catanzaro ha annullato le interdizioni dai pubblici uffici nei confronti dei precedenti commissari alla Sanità calabrese, Saverio Cotticelli e Massimo Scura, coinvolti nell’inchiesta “Sistema Cosenza”, che riguarda la presunta falsificazione, da parte di terzi, dei bilanci dell’Azienda sanitaria cosentina relativi agli anni dal 2015 al 2017. Il dem Antonino Castorina, consigliere comunale di Reggio Calabria, è nel mirino della Procura con l’ipotesi di brogli elettorali riguardanti le Comunali reggine del 2020. Giancarlo Pittelli, ex coordinatore regionale del partito di Silvio Berlusconi, poi transitato a Fratelli d’Italia, avrebbe messo in contatto ’ndrine e istituzioni, secondo la Dda di Catanzaro, che lo accusa nell’ambito dello stralcio del maxiprocesso alla ’ndrangheta “Rinascita Scott”. Su richiesta del Pm, il Gip di Reggio Calabria ha archiviato la posizione dell’assessore regionale Domenica Catalfamo (centrodestra), ritenendo insussistenti i reati a lei attribuiti nell’inchiesta “Helios”.



Per i politici, in Calabria è difficile, forse impossibile, non avere guai giudiziari. Lo sa bene Luigi de Magistris, che nel 2007 da pubblico ministero iscrisse nel registro degli indagati, tra gli altri, l’ex presidente della Regione Giuseppe Chiaravalloti (centrodestra) e il successore Agazio Loiero (centrosinistra), il consigliere regionale Antonio Acri (Pd), il vicepresidente della giunta regionale Nicola Adamo e la moglie Vincenza Bruno Bossio, entrambi del Pd. Tutti prosciolti, anche se de Magistris, rispetto al fallimento dell’inchiesta “Why not”, di cui era titolare, mantiene la tesi dello “scippo”, del complotto e, in alternativa, delle proprie ragioni, di là dalla sfera penale sancite, ripete, dalle varie sentenze della Cassazione.



Dallo scorso gennaio, appena approvato (per un solo voto in più) un disperato bilancio comunale di previsione 2020-2022, il sindaco di Napoli si è tuffato nell’avventura delle regionali della Calabria, prima alleandosi con l’ex capo della Protezione civile regionale, Carlo Tansi, poi mollandolo per incompatibilità caratteriali. L’ex Pm, che in Calabria manca dal 2009, sa che da solo non andrebbe lontano, dunque cerca l’aiuto del Pd e del Movimento 5 Stelle. Alla sua maniera, lanciando bordate quotidiane contro il partito di Enrico Letta, chiedendo ai pentastellati se stanno con la mafia e proponendosi come garante del rinnovamento, come guida di una coalizione civica che i partiti del centrosinistra dovrebbero, a suo avviso, appoggiare senza i rispettivi simboli.



È la riedizione del peggiore grillismo degli esordi, dell’antipolitica priva di contenuti, fondata sul malcontento popolare, sulle generalizzazioni, sulla distinzione soggettiva, arbitraria, tra i buoni, chi non ha tessere e vita di partito, e i cattivi, gli altri. Lo è in primo luogo nel linguaggio. De Magistris propone di “scardinare il sistema”, afferma che la sua investitura o meno quale candidato civico sostenuto dal centrosinistra “è un referendum per la libertà o per la sudditanza”. Avverte che, se il Movimento 5 Stelle non ci sta, “è parte del partito unico della spesa pubblica e del trasversalismo politico”.

A compendio, de Magistris sentenzia che alle segreterie di partito nazionali “non gliene frega proprio” e “non gliene è mai fregato” della Calabria. Della storia ne fa un boccone solo: nella sua “requisitoria” martellante cancella in un attimo figure e interventi della prima Repubblica, poi conclude che la Calabria “è esattamente una potenziale merce di scambio”. Dunque un candidato che ha lasciato la magistratura per la politica – e che da 11 anni è scomparso dalla Calabria per vivere legittimamente a palazzo – ritorna giusto al termine del secondo mandato da sindaco e si arroga il diritto di imputare bulimia di potere e inciucismo ai partiti, ad alcuni dei quali chiede di portargli voti seppellendo la loro identità: simboli, bandiere, esperienze. E per finire si fregia di una sigla, DemA, che contiene in sé la parola “democrazia”.

Soltanto in Calabria, la regione in cui sono commissariati vertici della sanità, Comuni, enti regionali e, manca poco, perfino le pietre, de Magistris poteva trovare spazio e séguito, ascolto e risonanza (via Giletti). L’ex Pm ha gioco facile, perché il Pd, non solo calabrese, è ormai in frantumi: ha perduto la bussola, l’orgoglio, l’organizzazione e la volontà di costruire l’alternativa al centrodestra, destinato a riconquistare la Regione sotto la guida di Roberto Occhiuto, candidato presidente in pectore e attuale capogruppo dei deputati di Forza Italia. Malgrado abbia 10 parlamentari del territorio, il M5s è fermo ai ripetuti annunci di Giuseppe Conte su un candidato civico – ricorre il nome del docente universitario e scrittore antimafia Vincenzo Ciconte – che suggellerebbe l’alleanza giallo-rossa. Così il centrodestra rivincerebbe a mani basse, perché dall’altra parte centrosinistra, Tansi e de Magistris si dividerebbero i consensi, con un’astensione variabile tra il 50 e il 60%.

Il teatro della politica è solo all’inizio, in Calabria, che deve fare i conti con il dominio della ’ndrangheta, con una burocrazia intoccabile e perpetua, con i dati spaventosi della disoccupazione e dello spopolamento, con una sanità in coma per vecchie incapacità gestionali. Fino al voto di ottobre ci sarà tanto da ridere. O da piangere.

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