Questa volta non c’è stato troppo da aspettare. Gli exit poll hanno confermato il trend degli ultimi sondaggi riservati, e il conteggio definitivo ha sancito quella che appare una rivoluzione: in libere elezioni – secondo alcuni commentatori indette in fretta e furia per rendere la vita difficile a nuovi entranti e favorire i partiti già noti – dopo tanti anni ha vinto il centro-destra con alla testa un partito di destra a tutto tondo.
Come sempre, nelle elezioni conta molto la comunicazione, che molti pensano sia una tecnica non difficile da praticare, e così commettono errori su errori. Può sembrare un’osservazione irriguardosa, ma un partito e un leader politico rispondono alle stesse regole vigenti nel mondo dei prodotti commerciali: una chiara identità e il mantenimento costante di promesse e performance giuocano sempre un ruolo fondamentale.
A questa regola è venuto meno Matteo Salvini, che dopo i momentanei exploit conseguiti con le sue felpe e le sue apparizioni sui social, si è convinto che la continua estemporaneità nel cavalcare gli spunti del momento fosse la chiave per far crescere e consolidare i consensi per lui e per la Lega. Nulla di più errato: quando il gioco è stato scoperto i consensi hanno cominciato a calare, anche perché nel contempo l’elettorato della Lega si è sempre più popolato di gente abituata a far di conto per gestire piccole e medie attività, e quindi sempre meno sensibile ai proclami buoni solo per scaldare gli animi.
Così è avvenuto che nelle operose regioni del nord i voti si sono spostati verso FdI, grazie alla comunicazione di Giorgia Meloni, non priva di spunti retorici, ma sempre puntuale, fattuale e soprattutto coerente nel tempo. Si è presto capito che lei studiava i dossier, mentre Salvini improvvisava perlopiù alla ricerca di frasi ad effetto.
Riguardo al Pd, si può dire che l’identità l’avesse persa da un bel po’. Con molta lucidità, il sociologo Luca Ricolfi spiega da tempo che sinistra e destra sembrano essersi invertite le parti. Il Pd è diventato negli anni il partito della borghesia benestante, dei sodali dei poteri forti, delle terrazze romane e dei salotti bene di Milano. È diventato il partito della woke culture, difensore di istanze che vanno di moda ma ben poco hanno a che fare con le difficoltà della vita quotidiana, e che riguardano di fatto una ristretta minoranza di persone.
Così quando arrivano i veri problemi si tende a badare di più al sodo. Se ci aggiungiamo che Enrico Letta ha impostato una campagna spocchiosa, cavalcando il vecchio vizio di una sinistra abituata a sentirsi antropologicamente superiore, nel momento cruciale molti elettori gli hanno presentato il conto.
A proposito di identità, gli uomini veri si vedono nei momenti difficili: e a molti non è sfuggito che all’appalesarsi del disastro ai vertici del Pd siano state mandate avanti le donne, che pure non hanno ben figurato. Sostenendo che adesso il Pd è il primo partito di opposizione, Deborah Serracchiani ha ricordato Mussolini quando – a proposito dei forzati ripieghi in Abissinia – aveva detto: “Ci siamo attestati su nuove e più arretrate posizioni”.
Il recupero di 5S adopera di Conte ha una sola spiegazione: pur perdendo metà dei consensi che il movimento aveva, l’avvocato degli italiani pare ora un vincitore per aver ripreso molti consensi rispolverando l’originaria identità anti-casta e aver definitivamente espropriato il Pd della difesa dei più deboli con la sua strenua battaglia per il Reddito di cittadinanza.
Discorso a parte, ma nemmeno tanto, meritano le cosiddette liste del dissenso. Non presentandosi unite in un solo partito, hanno commesso in piccolo l’errore che hanno commesso in grande Pd, Calenda/Renzi e 5s nel non tentare una coalizione, che con il senno di poi avrebbe benissimo potuto giocarsela.
Di nuovo, anche nei loro riguardi, ha giuocato il problema dell’identità: troppi obiettivi diversi – dal no-vax, al no Nato, al no-green pass, al no-Europa – in formazioni ancora sconosciute (per di più ignorate dai giornali o sempre maltrattate dai giornalisti televisivi) hanno confuso gli elettori incerti. Che sui vaccini si sono accontentati delle promesse di FdI di non insistere su green pass e obbligo vaccinale, sicché non c’era bisogno di votare liste concentrate su questo tema. È pure probabile che nell’astensione crescita di circa dieci punti si siano annidati anche quanti hanno pensato che qualche eletto in una piccola lista non avrebbe fatto nessuna differenza.
Come ha giustamente rilevato Giorgia Meloni nella sua apparizione notturna, per nulla trionfalistica (anche questo fatto è stato assai azzeccato) “Questo non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza”.
Fra i tanti problemi da risolvere ce n’è uno non indifferente: l’individuazione di una classe dirigente all’altezza, che non si trova nei campi come le margherite.
E poi il rapporto con la cultura: da moltissimi anni c’è un’egemonia di referenti di sinistra nella musica, nell’arte, nell’editoria, nel giornalismo, nella tv e nei media tradizionali e nuovi. Spesso ai loro posti solo per appartenenza politica e non per vera competenza. Pronti a difendere le loro prebende con le unghie con i denti.
Auguri.
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