Prima dell’estate, il Parlamento ha approvato una delle diverse riforme del pacchetto giustizia varato nell’ambito del Pnrr. Parliamo della riforma del Consiglio superiore della magistratura, riportato alla quota di 30 componenti, oltre quelli di diritto, come era fino al 2002. Ma il senso principale della riforma è un altro: svincolare i consiglieri, sia laici che togati, da ogni appartenenza politica o logica correntizia, perché possano agire liberi dai troppi condizionamenti che ne hanno caratterizzato l’operato degli ultimi anni.



In quest’ottica, per la quota dei 10 componenti laici eletti dal Parlamento in seduta comune, si è previsto che avvocati con almeno 15 anni di esperienza e professori ordinari in materie giuridiche potessero presentare direttamente candidatura.

Sarà il solito adagio gattopardesco del cambiare tutto perché tutto rimanga com’è? O davvero stavolta il Parlamento intenderà scegliere tra la società civile, senza ripescare onorevoli frustrati dai collegi elettorali, o tecnici d’area ben disposti verso lo sponsor politico?



Lo scopriremo il 17 gennaio, quando è fissata la seduta elettorale a Montecitorio. Intanto però le candidature sono arrivate numerose e tante ancora, c’è da scommetterci, arriveranno fino all’ultimo giorno utile.

Quindi non sono l’unica ingenua, ma tanti come me hanno pensato che occorresse farsi avanti, per dire alla politica che la società civile c’è e chiede di fare la sua parte. Mi sono candidata per portare avanti la battaglia verso ogni forma di disuguaglianza e in difesa dei diritti civili che conduco da oltre 25 anni. Ho scelto di difendere gli ultimi, o forse dovrei dire gli invisibili, quelle persone a cui la società dedica meno spazio, meno tempo e meno attenzione di quanto sarebbe necessaria e certamente di quanta meriterebbero. Sono le famiglie in cui ci sono persone diversamente abili, principalmente bambini, che a parole dovrebbero essere accolti e integrati come i loro compagni normodotati, ma che in realtà sono marginalizzati e scontano difficoltà insormontabili. La legge sull’inclusione scolastica ha compiuto 30 anni a febbraio e certamente ha consentito di imboccare la strada giusta per non ripetere l’ignominia delle classi differenziali. Ma tanto ancora c’è da fare perché un bambino diversamente abile possa partecipare attivamente alle lezioni, possa essere aiutato in tutti i suoi bisogni primari, possa fare sport e attività ricreative senza discriminazioni.



In un mondo ideale non dovrebbe nemmeno essere necessario ricorrere ad un giudice per vedersi riconoscere questi diritti. Nella realtà, chiedete alle famiglie che il problema lo vivono tutti i giorni: non è così.

Moltissimi hanno difficoltà ad iscrivere un bambino a scuola perché non è garantito l’insegnante di sostegno, se non per alcune ore, o perché non c’è un assistente materiale che lo aiuti nelle esigenze indifferibili, oppure un assistente specialistico che collabori con i docenti curricolari e di sostegno per migliorare l’inclusione e la socializzazione nel contesto classe.

La coperta è sempre corta e purtroppo lascia senza riparo soprattutto le fasce più deboli.

I politici, gli amministratori pubblici, gli stessi magistrati si indignano pesantemente quando il problema tocca un loro nipotino, un congiunto o un amico a cui tengono, ma poi se ne dimenticano quando sono chiamati, ciascuno nel proprio ambito, a fare qualcosa.

E così, ancora oggi bisogna rivolgersi ai tribunali per vedere garantiti i diritti minimi e spesso sono le stesse scuole, ancorché controparti processuali necessarie, a suggerire alle famiglie di agire in giudizio, perché solo in questo modo riescono ad ottenere in organico quelle figure che altrimenti non sarebbero concesse.

In tutti questi anni non sono mancati i momenti di frustrazione di fronte alla reiterazione di un comportamento illegittimo posto in essere dalla Pa e alla necessità di ricorrere nuovamente alla magistratura. Il coraggio di andare avanti lo trovo nello sguardo dei miei assistiti, delle mamme e dei papà che, pur provati dall’ennesimo rifiuto, continuano con determinazione a lottare ogni giorno per garantire un futuro migliore al proprio figlio disabile.

Difendere nelle aule di giustizia gli interessi dei bambini mi gratifica moltissimo e continuerò con le mie possibilità e con tutti i miei limiti, a prescindere da come andrà la candidatura al Csm. Dove, tuttavia, sarebbe molto utile portare questa battaglia – che non è la mia, ma di tante famiglie accomunate dall’esigenza di assicurare una vita normale a bambini speciali – a un livello diverso. Perché proprio al Consiglio superiore della magistratura competerà scegliere i vertici del Tribunale unico per la famiglia e le persone, che una ulteriore riforma ha previsto e che fra poco comincerà ad operare in tutto il Paese, assorbendo sia le competenze del Tribunale per i minorenni che quelle del Giudice ordinario.

Siano scelti per competenza certamente, ma anche per umanità, perché nell’organizzazione del lavoro sappiano guardare innanzitutto al bisogno delle persone, in particolar modo di quelle più fragili.

In una recentissima intervista, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha detto che immagina i capi degli uffici giudiziari sempre più come manager: ne comprendo lo spirito e la logica, ma dico che non va bene per questo tipo di Tribunale.

Per questo, ai parlamentari di tutti gli schieramenti chiedo di contribuire con le loro nomine ad un Csm plurale, dove possano trovare posto anche sensibilità diverse da quelle che finora vi sono state rappresentate, che possano dar voce alle istanze degli invisibili.

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