Il congedo di Mario Draghi è stato amaro e combattivo insieme. L’amarezza traspariva chiaramente dal secco “no” a un eventuale nuovo mandato e dall’orgoglioso bilancio degli interventi contro il caro energia. Il Governo ha stanziato 60 miliardi di euro, pari al 3,5% del Pil, la metà dei quali negli ultimi due decreti: Aiuti bis 17 miliardi ancora palleggiati tra Camera e Senato e Aiuti ter (14 miliardi) varato venerdì. Senza nessuno scostamento dal sentiero tracciato e dalle compatibilità finanziarie votate in Parlamento. “Siamo tra i Paesi che hanno speso di più in Europa senza mettere in pericolo i conti pubblici e causare tensioni sui mercati”, ha detto Draghi.



Lo spirito combattivo è venuto fuori verso chi come la Lega ha votato contro la mappatura delle concessioni balneari e la riforma dei servizi pubblici locali perché voleva rinviare tutto a dopo il 25 settembre sollevando una questione di metodo (“non è questo il nostro metodo”, ha replicato Draghi); chi come Giorgia Meloni e la stessa Lega difende Viktor Orbán (“nei rapporti internazionali occorre essere coerenti, non fare capovolgimenti e giravolte, le alleanze si fanno per difendere gli interessi degli italiani”); chi come Giuseppe Conte si “inorgoglisce per l’avanzata ucraina quando si è votato contro l’invio di armi”. E poi la stoccata più dura nella quale amarezza e combattività convergono contro “i pupazzi prezzolati” che flirtano con Putin.



“Siamo il Governo del fare non dello stare”, Draghi ha ripetuto una delle sue definizioni preferite. Ha fatto molto, ma non tutto quello che avrebbe voluto, perché gli hanno staccato la spina. Ora lascia al successore un’eredità pesante come la situazione geopolitica ed economica nella quale siamo immersi. In politica estera il sostegno all’Ucraina che combatte “una guerra di liberazione” contro l’invasione russa è “la posizione dell’Italia, del suo Governo e, così auspico, di quello che verrà”. In politica economica i tre compiti dei prossimi mesi sono altrettanto impegnativi: sostenere famiglie e imprese senza scassare i conti pubblici, realizzare il Pnrr, portare avanti le riforme che sono la condizione per ottenere i finanziamenti europei.



Sia Draghi, sia il ministro dell’Economia Daniele Franco hanno ribadito che non c’è bisogno di allargare il deficit che resterà quindi al 6,5% del Pil come previsto per quest’anno. Dunque viene respinta la pressione di Matteo Salvini per trovare altri 30 miliardi. Ma probabilmente ci sarà bisogno di nuovi sostegni, secondo il Tesoro c’è spazio per 4,7 miliardi che non sono molti se la situazione peggiora. L’economia continuerà a rallentare, anche se non è in vista una recessione vera e propria, quindi non c’è da sperare in altri “tesoretti” accumulati grazie alla crescita superiore al previsto.

Il ministro Roberto Cingolani ha ammesso che bisognerà intervenire ancora contro il caro bollette, ma è chiaro che non si potrà andare avanti a lungo. Soprattutto se verrà a mancare il gas. Per ora non c’è rischio di razionamento, i blandi risparmi già decisi saranno sufficienti, i depositi si riempiranno al 90% entro ottobre, ma se Gazprom chiude d’un colpo i rubinetti saranno guai seri. Dunque, meglio non sperperare le scarse risorse messe in cassaforte dal Tesoro. Anche perché l’inflazione è destinata a colpire duramente i bilanci dell’Inps, quando si tratterà di calcolare il recupero dell’inflazione. Una cosa, infatti, è compensare aumenti del 2%, tutt’altro se i prezzi continueranno a crescere tra il 6% e l’8%. Quando è stato deciso di proteggere completamente i pensionati l’inflazione era minima, ma certo è stata una scelta incauta oltre che iniqua privilegiando le pensioni rispetto ai salari. Non solo: senza ulteriori interventi, dal primo gennaio prossimo si torna alla legge Fornero.

Pensioni, fisco, concorrenza, sono tre riforme importanti bloccate dalla crisi di governo. Già non si era trovato il consenso prima che Draghi cadesse, poi il voto ha inasprito i contrasti e ha spinto i partiti ad arroccarsi. Il presidente del Consiglio non ha nascosto la sua preoccupazione. Le riforme sono essenziali per il Pnrr, l’Italia si è impegnata a vararle tutte entro la fine dell’anno. Anche qui è in ballo la parola data, altrimenti il Paese verrà considerato inaffidabile. Un giudizio che apre la strada a una reazione a catena politica e finanziaria, mettendo in pericolo non solo il Piano nazionale di ripresa e resilienza, ma il giudizio sul debito italiano che con 2.700 miliardi di euro è il più alto in Europa.

Il Pnrr può essere ridiscusso visto che è nato in uno scenario del tutto diverso? Draghi ha cercato di evitare polemiche ideologiche e ha fatto appello a un approccio pragmatico. Si può dunque esaminare ogni singola scelta, tuttavia “è stato quasi tutto bandito, c’è poco da rivedere”. Se si volesse cambiare le priorità, sostituire un progetto a un altro, il risultato sarebbe bloccare tutto. Può diventare concreto il pericolo di perdere un’altra occasione. L’ultima, probabilmente, prima del crack.

Il prossimo Governo dunque, già adesso ha sulle spalle enormi responsabilità.

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